Mercoledì 24 Aprile 2024

Togliatti il calcolatore. Comunista tra storia e mito

Stimato da Stalin, guidò il partito con cinico realismo

Palmiro Togliatti (Ansa)

Palmiro Togliatti (Ansa)

Francesco Ghidetti

AZZARDIAMO. Probabilmente, per capire Palmiro Togliatti (quest’anno sono passati cinquant’anni dalla sua morte avvenuta a Yalta il 21 agosto 1964) è utile ricordare un episodio che ben rende la cifra politica del “Migliore”. Siamo nel 1947. A settembre nasce il Cominform sulle ceneri del Comintern (se volete dare maggior esotismo comunista scrivete Komintern e Kominform, la “k” fa più effetto), vale a dire l’organizzazione mondiale che coordinava i movimenti comunisti per contrastare il piano Marshall e, soprattutto, la dottrina Truman.  Stalin, leader indiscusso e indiscutibile, dittatore sanguinario, decide che segretario generale dovrà essere proprio Togliatti. Il quale, garbatamente e con la sua voce garrula, dice di no. Riuscendo così a rimanere in Italia. Della serie: meglio restare a casa che andare a Mosca. Il segretario del Pci sa bene che cosa siano e siano state le epurazioni, che bagno di sangue abbia organizzato Stalin per disfarsi del “nemico interno” o, comunque, di coloro che, ossessivamente, lui riteneva nemici interni. Insomma, meglio cautelarsi. Non si sa mai. 

UN TOGLIATTI stratega che riesce a calcolare tutto con precisione. È, del resto, quello che tutti gli riconoscono. Non è esercizio inutile riportare alcune frasi di Domenico Bartoli, fra i maggiori giornalisti del “secolo breve”, anticomunista impenitente: il Migliore «ricorse — scrive il giorno della morte del leader del Pci — al “metodo indolore”, cioè alla manovra parlamentare, alla campagna politica, alla demagogia elettorale, lasciando svolgere appena quel tanto di violenza di piazza che serviva a mantenere un minimo di entusiasmo e di combattività senza far correre al partito il rischio di una repressione, dalla quale sarebbe stato disfatto».  Forse senza volerlo, Bartoli omaggiò alla grande il capo indiscusso dei comunisti italiani. Il quale, come centro di gravità permanente della sua azione politica, ebbe sempre l’irrisolto rapporto tra masse cattoliche e comuniste. Non a caso il Nostro scriveva: «Nelle file del partito democratico cristiano si raccolgono masse, ali di operai, di contadini, di intellettuali, di giovani, i quali hanno in fondo le stesse aspirazioni nostre perché al pari di noi un’Italia democratica e progressiva, nella quale sia fatto largo alle rivendicazioni delle classe lavoratrici».  Togliatti aveva perfettamente capito che la storia dell’Italia repubblicana era percorsa da un filo “bianco-rosso” che ne avrebbe marcato indelebilmente la storia. Filo che i suoi successori cercarono di annodare con sempre più forza.

BASTI pensare al Berlinguer del compromesso storico o, in fondo, alla stessa, pur se impacciatissima, operazione — benedetta dal più togliattiano dei politici italiani, Massimo D’Alema — di creazione del Partito democratico sotto il pomposo slogan dell’«unione dei grandi riformismi». Un elemento da non sottovalutare anche perché la presenza di due chiese così soffocanti abbia impedito il formarsi di un polo “lib-lab” laico-socialista in grado di incanalare il Paese verso una vera modernità europea.

RESTEREBBERO moltissimi altri elementi per capire come Togliatti fosse uomo politico in tutto e per tutto. Osannato dalle folle comuniste (e, prima del 1956 coi fatti d’Ungheria, anche socialiste), ma sempre sentito come distante. Vuoi per l’atteggiamento, vuoi per la sua scarsa capacità di stare nelle piazze (mentre leggendaria era la sua capacità di gestire le controversie interne al partito), vuoi per quella qual certa, ostentata, superiorità. Si pensi all’inchiostro verde della sua stilografica. Lo usava solo per scrivere di “questioni alte”, per discettare — lui, uomo coltissimo — di questioni culturali, in particolare storico-letterarie.  Prova di questo distacco è la prosa di un grande giornalista comunista, Giuseppe Boffa. Togliatti è morto da poco. E Boffa, sull’Unità, scrive: «Erano le 13,20 al campo di Artek, quando il cuore di Palmiro Togliatti ha cessato di battere. Un momento di tensione disperata gravava sulla palazzina dove Togliatti era stato ricoverato in questi giorni. Il silenzio era rotto solo dalle voci soffocate dei medici, dai singhiozzi dei familiari, dal rapido spostamento di qualche infermiere».  Da queste parole — moderatamente retoriche — si ha l’impressione di essere nella Storia. Ma volete mettere l’emozione che suscitò la morte di Enrico Berlinguer quando persino il neofascistissimo Giorgio Almirante andò a inchinarsi davanti al feretro del politico sardo esposto alle Botteghe Oscure?

L’UNICO punto dove Togliatti mostrò scarso cinismo o calcolo politico fu nei sentimenti. Come ci ricorda Anna Tonelli (autrice, tra l’altro, del prezioso Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della Guerra fredda), nella vicenda della separazione con la moglie sposata nel 1924 e lasciata per Nilde Iotti, «È Rita Montagnana ad avere un ruolo decisivo e non passivo in tutta la vicenda (...) Lo scambio di lettere sui tempi e i modi della separazione, fino alla richiesta della Montagnana di raggiungere il tribunale in auto separate, dimostra quanto si faccia attenzione anche ai dettagli, nella consapevolezza che la rottura dell’unione fra due dirigenti di primo piano, avrà anche un indubbio risvolto dentro e fuori il partito».  Infine, il Togliatti più “buono”. Il Togliatti che adotta Marisa, bambina orfana, sorella minore di un operaio ucciso nel 1950 a Modena. Per lei riuscirà a saltare un ostacolo a quei tempi particolarmente duro. Riuscì infatti a darle il suo cognome. Lui, che, per amore di Nilde, aveva lasciato Rita.