Giovedì 25 Aprile 2024

Bronzo di Lisippo, tutto da rifare. Un cavillo e la statua resta al Getty

L’Italia la rivuole ma la Cassazione annulla l’ordinanza di confisca

La statua di Lisippo al centro della battaglia legale

La statua di Lisippo al centro della battaglia legale

Pesaro, 28 dicembre 2015 - È un'opera esportata illegamente e comprata poi ad un’asta pubblica. L’Italia chiede agli Stati Uniti di riaverla indietro, affidandosi alla magistratura. Che in Italia ha il piccolo difetto di non dire mai chi ha torto o ragione in tempi ragionevoli. È la storia dell’«Atleta Vittorioso» attribuito allo scultore greco Lisippo risalente al 370 aC. Dopo due confische decise dalla magistratura italiana, la Cassazione ha detto no, tutto annullato. Per dei cavilli. Le udienze sono state fatte a porte chiuse come prevedeva il codice penale. Invece andavano tenute aperte, come vuole la Corte dei diritti dell’uomo della Ue. Insomma, otto anni di udienze davanti al tribunale di Pesaro diventate inutili. Si ritorna daccapo, davanti al gip. Il terzo, anzi il quinto perché quattro si sono già espressi sull’argomento.    Se lo ritrovarono nella rete, in mezzo a sardine, sogliole e vongole, i marinai del peschereggio «Ferruccio Ferri» di Fano. Il capobarca Romeo Pirani capì che era una statua di valore benché interamente coperta da sedimenti di secoli, ma non sapeva certo cosa fosse. Era il 14 agosto del 1964, e la Ferruccio Ferri gettava reti al largo delle coste tra Fano e Numana. Quando il peschereccio tornò al porto di Fano, i marinai portarono l’opera in bronzo a casa della armatrice, e lo misero nel sottoscala. Ad asciugare. Poi capirono che troppa gente voleva vederla e la sotterrarono in un campo di cavoli. Ci rimase un po’ ma i pescatori volevano realizzare subito e diedero la scultura (per quanti soldi non si è mai saputo) alla famiglia Barbetti di Gubbio, del cementificio omonimo. Che grazie alla complicità di un sacerdote, nascosero per anni l’opera in canonica. Poi agli inizi degli anni ’70 il Lisippo sparì, ricomparendo in un’asta in Germania. La scultura venne acquistata per 3 milioni e 900 mila dollari dal Getty Museum di Malibù mentre i Barbetti e il parroco vennero dapprima condannati a pochi mesi di reclusione per ricettazione e poi assolti con formula piena. Sul Lisippo e sulle proteste dei fanesi per lo scippo subìto scese più che il silenzio il totale disinteresse dello Stato. Fino al 2007 quando l’associazione Cento Città col professor Alberto Berardi propose istanza alla procura di Pesaro di confisca del Lisippo. Nessuno credeva che fosse un tentativo serio di riavere indietro la scultura, ma non il pm Silvia Cecchi che ci ha creduto subito. Ottenendo nel 2008 un primo «no, non se ne parla» dal gip Daniele Barberini, ma nel 2010 quel no divenne un sì da parte del gip Lorena Mussoni che firmò l’ordine di confisca contro cui lo studio Gaito per conto del Getty Museum ricorse prima a un gip per ottenere la sospensiva e poi in Cassazione lamentando la scarsa istruttoria.    La sospensiva non la ottenne, ma centrò il bersaglio più grosso: la Cassazione annullò tutto perché si era fatto troppo fretta. Altro gip, questa volta il dottor Maurizio Di Palma, lunga istruttoria, tanti testimoni, comprese perizie che parlavano di danni irreparabili all’opera per un eventuale viaggio di ritorno in Italia, ma il gip confermò la confisca perché la scultura non poteva essere venduta né comprata. Altro ricorso in Cassazione per il cavillo delle porte chiuse, interpello alla Consulta, che rispose sì, «l’udienza andava fatta a porte aperte», e ora la Cassazione ha annullato la confisca rimandando tutto al gip di Pesaro. Il quinto. Ma il pm è sempre Silvia Cecchi, che dice: «Ancora prontissimi a far valere le nostre convinzioni. Il Lisippo deve tornare in Italia». Sui tempi è ormai una questione per storici.