Bossetti, prima notte da condannato. "Una tortura: non toglietemi i figli"

Caso Yara, il muratore all’ergastolo. La visita della moglie Marita

Massimo Bossetti (Ansa)

Massimo Bossetti (Ansa)

Bergamo, 3 luglio 2016 - «Non possono portarmi via i miei figli». Massimo Bossetti indossa la stessa t-shirt azzurra e gli stessi jeans del giorno della sentenza. Un velo di barba rende ancora più affilato il viso. Nella cella che divide con un compagno, nel carcere bergamasco di via Gleno, ha trascorso una notte senza sonno e con tante lacrime. L’uomo condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio ha un rovello che pare essere ancora più tormentoso della condanna all’ergastolo: «Mi possono condannare, ma non possono levarmi i figli. Cosa vuole dire? Non potrò più vederli?». Gli viene spiegato che quella che gli toglie la potestà genitoriale è una pena accessoria, che scatterà soltanto se la condanna penale dovesse diventare definitiva. Questo lo calma, lo rasserena un po’.

Non riesce a capacitarsi della condanna. «Sono distrutto. Non mi aspettavo un colpo così. Ero fiducioso, so di essere innocente. Come hanno potuto condannarmi? È stato un grande errore, è stata una grandissima ingiustizia. In vita mia non ho mai fatto del male a nessuno. Ho avuto una vita normale. Sono una persona mite, non ho mai litigato con nessuno, come ho detto ai giudici. Mi stanno uccidendo dentro, tutto, l’esistenza, la famiglia. È una tortura». Si offre come un uomo disperato, inconsolabile. Viene sorvegliato 24 ore su 24, per timore che ceda all’autolesionismo o addirittura alla tentazione di un atto disperato. Bossetti rassicura: «Non succederà nulla di questo. Devo andare avanti. Continuerò a lottare. Devo farlo per i miei figli».

Ripete spesso una frase, la prima che ha pronunciato quando è entrato in carcere, il pomeriggio del 16 giugno di due anni fa, un lunedì, quando lo avevano prelevato sul lavoro, in un cantiere a Seriate. «Sono padre anch’io. Non avrei mai potuto fare del male a una bambina».

Alle otto del mattino riceve la visita della moglie Marita Comi e del fratello minore Fabio. Chiede a lungo dei tre figli, si raccomanda che glieli portino presto. In mattinata si presenta anche il difensore Claudio Salvagni, che si trattiene per un’ora. Al momento del commiato si scambiano un lungo abbraccio. Trascorre la giornata senza muoversi dalla cella, il televisore spento, il cibo del pranzo di mezzogiorno appena toccato. Nel pomeriggio non compare alla messa celebrata da don Fausto Resmini, cappellano del carcere.

«Bossetti – dice Salvagni all’uscita dal carcere – non ha potuto partecipare all’esame sul Dna, non era indagato, il suo nome nell’inchiesta non esisteva. Il test non è stato rifatto come chiedevamo. Questo è bastato per mandarlo all’ergastolo. Come fa Bossetti a difendersi? Non può in nessun modo. Ritengo che questa sia una enorme stortura all’interno del sistema. Se io sono accusato per il Dna, perché non me lo fai rifare? Perché non posso dire la mia su un punto che mi inchioda? Avete visto quanti errori sono stati commessi in questa inchiesta, errori in quantità industriale. È tutto perfetto solo per il Dna? La Suprema Corte ha cassato un accertamento di paternità fatto con un kit scaduto. Nel penale l’asticella dell’attenzione deve essere portata molto, molto più in alto. Soprattutto se si gioca un ergastolo».

«Il fatto – conclude il difensore – che ci sia il Dna di Bossetti non è una prova. Sulla vittima ce ne sono altri undici. Uno ha una intensità di 8.000 Rfu (unità di fluorescenza, ndr), quello di Bossetti 1.500. Tutto questo per dire che la sentenza che manda Massimo Bossetti al carcere a vita è un terribile errore giudiziario. Ne sono intimamente convinto».