Giovedì 25 Aprile 2024

BOLT, LA DECIMA MAGIA E' DA LEGGENDA

Leo Turrini MI ERO perso nella pancia dello stadio di Berlino, il mitico teatro che nel 1936 aveva celebrato la gloria di Jesse Owens, il primo figlio del vento, il nero che aveva umiliato la teorie ariane di Adolf Hitler. Da un androne sbucò all'improvviso, da solo, un tizio lungo lungo, con braccia che sembravano elastici lunghissimi. Indossava una tuta gialla. «Per di là mi disse . Se riesce a correre svelto, fa ancora in tempo a prendere l'ultimo treno per il centro città». Era il 2009, i mondiali di atletica leggera avevano un sovrano indiscusso. Esattamente l'uomo che mi invitava a scattare. Era Usain Bolt. LA DECIMA. Quella sera sarebbe stato eccessivo immaginare che il giamaicano, duemila giorni dopo, sarebbe stato ancora il Re, inavvicinabile ed intoccabile, di uno sport che non sempre ama la longevità. E invece, La Decima' di Bolt, intesa come decima medaglia d'oro sul palcoscenico iridato, è la fotografia più nitida della edizione datata 2015. Tenterò di non cadere nella trappola della esagerazione retorica. Non sarà esercizio semplice, caro lettore: perché la suggestione evocata dalla volata di Usain sui 200 metri, nella finale di ieri, rimanda dritta dritta alla epopea dello sport. Bolt ha ormai varcato i confini della cronaca. Credo ne sia consapevole. Già alla Olimpiade di Londra del 2012, viveva proiettato in una dimensione esclusiva. Lo spiegò anche, a chi gli faceva i complimenti per i suoi trionfi: corro per me stesso, rispose, mi fermerò soltanto quando capirò di non essere più il numero uno. La partita lui la gioca contro se stesso, punto e basta. IL BIS. Il povero Gatlin aveva incassato con stile la tremenda lezione dei 100. Mai immaginare di aver stretto Bolt all'angolo: il giamaicano è come Muhammad Alì, finge di appoggiarsi alle corde del logorio e poi se ne esce con una sequenza devastante, con una accelerazione brutale. E Justin aveva fatto la fine di George Foreman sul ring di Kinshasa. Partito per suonare, tornò suonato. Sui 200, avevo scritto ieri, l'americano era oggettivamente senza scampo. Se non aveva messo kappao Alì-Bolt sulla distanza più breve, dove l'esplosività in uscita dai blocchi poteva garantirgli un vantaggio, ecco, come se la poteva cavare dinanzi alla maestosa virtù del compatriota di Bob Marley, cioè quella capacità unica di distendere il passo in progressione? E infatti, come ama raccontare il maestro Roberto Quercetani, il più bravo a narrare di muscoli e di sprint, insomma di atletica, a vincere è stato il più forte. Più forte di testa e di gambe, Usain già dopo un quarto di gara aveva divorato le residue velleità di Justin. Sul rettilineo, gli occhi di Gatlin si sono malinconicamente persi nella visione di un'ombra giallo-nera che si allontanava, si allontanava, infine si tuffava nell'oro del quarto titolo mondiale consecutivo sui 200, il decimo complessivo. Il tempo (1955) è straordinario ma non da record: il Bolt postmoderno non rincorre più primati, soltanto le vittorie, in vista del traguardo ha pure rallentato! Gatlin ha preso l'argento in 1974, il ragazzino sud africano Jobodwana il bronzo in 1987. Lo sapete che con il suo storico 1972, roba del 1979, il carissimo Pietro Mennea sarebbe arrivato secondo? LA BOTTA. Chiudo dicendo che a fermare l'inarrestabile giamaicano ce l'ha fatta uno sventurato cameraman cinese, che ha abbattuto Usain durante il giro d'onore. Bolt ha rimediato più di un livido nella caduta, ma farà di tutto per disputare, domenica, la finale della staffetta veloce. Diavolo, Gatlin è ancora là che lo aspetta!