Blu cancella i murales: esempio di coerenza

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Roma, 13 marzo 2016 - Gesto nobile e autentico quello di Blu, che restituisce alla strada quello che nella strada è nato. E non è nato perché qualcuno lo abbia commissionato, ma per un gesto di trasgressione che rappresenta la posizione e la ribellione dei writers alle regole della società. Caratteristica prima del graffito sono le grandi dimensioni, che il Novecento, si pensi a Morandi o Mondrian, ricusa per piccoli quadri da stanza pensati per un collezionismo privato, ricco ed egoista. Unico precedente tipicamente consolidato sono i murales messicani di Diego Rivera, Siqueiros, Orozco, i quali hanno lavorato su commissione in nome del potere e della rivoluzione, come era stato da noi, durante il fascismo, con i grandi murali di Sironi. Quando inizia l'avventura dei giovani graffitisti siamo nel pieno della crisi dei rapporti tra committenti e artisti e anche del disagio per trovare spazio e accoglienza. La loro reazione è dunque restare fuori dalle istituzioni e dai musei, un po' per scelta, un po' per necessità. Così conquistano lo spazio urbano principalmente in aree periferiche dove non chiedono a nessuno di poter sfogare la loro - talvolta eccellente - creatività.

Eccoli dunque essere fuori legge, conquistarsi spazi urbani. Il centro di irradiazione di questa concezione 'coatta' è il Leoncavallo di Milano dove, in vastissimi spazi i writers si esprimono tra le vie Antoine Watteau e Giam Pietro Lucini, per singolare coincidenza. Alcune invenzioni saranno memorabili, ma lo è altrettanto la loro pervicace illegalità. Segue Bologna con vaste imprese nelle aree dei centri sociali, giudicate dal critico Antonio Storelli, titolare della galleria Portanova 12, tra i monumenti dell'arte contemporanea che hanno reso Bologna la capitale del graffitismo. Oggi quella realtà è minacciata, non dai vandali ma dagli stessi autori dei graffiti che non vogliono sentirsi espropriati di ciò che hanno fatto contro la legge. È un paradosso, ma è del tutto legittimo che Blu distrugga quello che ha fatto, per impedirne "l'estraniamento", sradicando i graffiti dai luoghi dove sono stati realizzati e dove hanno il senso della storia, della libertà e della eversione. La rivoluzione non può essere portata in salotto. Meglio il "cupio dissolvi". Capisco le buone intenzioni di Fabio Roversi Monaco, ma devo ricordagli che, come spesso mi accade, io, da assessore alla cultura di Milano dieci anni fa, sono stato il primo a fare prigionieri i writers in una memorabile (ma forse non abbastanza) mostra al Pac, dove, con Alessandro Riva, invitai, in spazi pubblici e nel rispetto di tutte le regole, numerosi giovani a esprimersi nel loro linguaggio libero, trasferito dalla strada al museo.

Contestualmente, tentai di vincolare i graffiti del Leoncavallo, luogo per eccellenza della occupazione e della illegalità. Mi scontrai con il sindaco Moratti e con gli altri assessori che mi tolsero la competenza del Leoncavallo, impedendomi anche fisicamente l'accesso a quell'area, perché il riconoscimento del valore artistico dei graffiti avrebbe prevalso sull'illegalità. Se sul muro di una casa di un signore Leonardo avesse lasciato uno schizzo della battaglia di Anghiari, l'importanza del reperto ci impedirebbe di distruggerlo. E noi, come accade con i graffiti dei prigionieri nello Steri di Palermo, saremmo a legittimare ciò che è fuori legge. Ora, il caso vuole che al Pac, sulla facciata dell'edificio di Ignazio Gardella, tra l'altro ricostruito dopo un gravissimo attentato terroristico, io abbia commissionato, proprio a Blu, il dipinto che tuttora  è in situ, sempre minacciato di essere cancellato, ma non guardato con sfavore dagli ultimi sindaci Letizia Moratti e Giuliano Pisapia, forse perché non si sono accorti che, su uno sviluppo di più di dieci metri, rappresenta una montagna di cocaina a cui tutta  la popolazione attinge. Se lo sapessero, si augurerebbero che, come a Bologna, venisse distrutto. In realtà rappresenta un punto di equilibrio tra il gesto libertario del graffitista e l' opinione pubblica. Non avrei mai immaginato di fare una mostra strappando ed estirpando dai luoghi dove sono state concepite, le opere che sono state concepite per quella situazione e in quelle circostanze. Non so come ora la situazione sia riparabile, ma la buona intenzione del curatore e del produttore della mostra ha evidenziato una contraddizione insanabile. E Blu ha paradossalmente rivendicato i diritti della sua illegalità. Non si può legalizzare ciò che nasce da un gesto anarchico. Meglio distrutti che in mano ai capitalisti.