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Quello che ho sempre pensato della F1 (scritto da Donnini)Leo Turrini - 16 novembre 2017

Come alcuni frequentatori di questa mia casa virtuale già sanno, a me purtroppo non fa difetto la presunzione. Ad esempio, mai mi è capitato, leggendo sull’automobilismo cose di altri, “ah, questa cosa avrei voluto scriverla io”.

E’ un mio limite, anche grave.

Però questa settimana mi sono imbattuto in un testo di Mario Donnini, appena apparso su Autosprint, rivista storica che ogni tanto ospita le mie sciocchezze. E ho cambiato idea: questo è un brano che avrei voluto scrivere io, invece.

Ho chiesto a Mario, che ringrazio, il permesso di ripubblicarlo qui. Io non avrei saputo esprimermi meglio. Lui ha una grande passione per la cultura dell’automobilismo: e riesce a trasmetterla magnificamente.

MARIO DONNINI

Sai che c’è? Hamilton che sul podio di Suzuka s’infila l’anello di Sato già vincitore a Indy non escludendo un tentativo ipotetico e Alonso che dopo aver assaggiato da protagonista la 500 Miglia si dà one off all’endurance con Daytona e, presumibilmente, Le Mans in Toyota, sono dei gran bei segnali. Ma belli belli.
Perché, al di là degli sviluppi, dimostrano che forse siamo fuori dal periodo più brutto e torbido vissuto dal motorsport, ossia l’Ecclestonismo.
L’Ecclestonismo è fenomeno ben diverso rispetto a Bernie Eclestone, anche se da lui causato, propiziato e coltivato.
Ecco, diciamo, un conto è valutare e stimare Bernie Ecclestone e tutto ciò che di bene ha fatto per far salire di livello la Formula Uno, trasformandola in un world live show, e ben altra cosa è analizzare, giudicare e catalogare ciò che ha combinato una volta arrivato in cima. Cioè, il frutto degenerato della sua iperavida ansia di esponenziale e ormai irrazionale di potere e guadagno, ossia l’Ecclestonismo.
Gestendo la massima categoria dell’automobilismo sportivo come una murena bulimica in grado d’azzannare e distruggere tutto. Dall’endurance al rally fino alle grandi classiche, passando per la concezione stessa di pilota, trasformato da eroe versatile, uomo interessante e icona matura perennemente in bilico nel dare un senso a una vita trascorsa facendo surf sul rischio della morte, a funzionale, totale e iperprotetto bamboccio, appositamente decerebrato a uso e consumo indiscriminato degli interessi della Casa, dello sponsor di turno e della Formula Uno stessa.
Pilotino-tipo bollato come un’oca da paté per tutta la vita di campione fecondo a correre esclusivamente e tassativamente nei Gran Premi, diffidato dall’intraprendere qualsiasi slancio promozionale verso categorie ipoteticamente concorrenti o mediaticamente impallanti, aduso a parlar tacendo, a mostrarsi nascondendosi, a raccontarsi senza mai esporsi e portatore insano di un monopensiero che non è neanche mono, perché in realtà incarna il nulla pneumatico. Il vuoto cosmico.
Un birignao lapalissiano che in confronto il “ciao, mama” della parodia del ciclista da tappa alpestre Anni ’60 sfolgora quale manifesto gridato alla più irredenta e fracassona libertà dadaista.
Il modello finale e compiuto – magari non aderente a nessun pilota realmente esistito ma tendenzialmente e Ecclestonisticamente atto a ispirarne parecchi -, resta quello del campionuccio perfetto imbecille gonfio di quattrini, inavvicinabile, belloccio e monogamo. Proprio niente a che vedere con l’amabile trombatore edonista, vitalista, macho e parlachiaro alla Clay Regazzoni prima maniera. No, un ragazzino viziato forse neanche monogamo, intellettualmente piatto, sottilmente paraculo e tacitamente lecchino dei poteracci forti. Un nerd che ce l’ha fatta.
Roba che nei decenni recenti ha fatto danni che manco Enola Gay in Giappone, perché migliaia di pilotini dai kart alle kategorie minori, fino all’anticamera varcata della F.1, invece d’ispirarsi idealmente a Michel Vaillant, a Henri Pescarolo, a Rauno Aaltonen, Aj Foyt, Mario Andretti o Sandro Munari, si sono esistenzialmente e caratterialmente spiaccicati scimmiottando un modello di pseudo-campione insopportabile, riccamente impiegatizio, aggiungo codardo sia in pista che soprattutto fuori – cioè tendenzialmente uno sciapo che se la tira -, spesso con l’aggravante d’essere dei perfetti sfigati persino nell’abitacolo.
Poi l’Ecclestonismo ha fatto di peggio. Distruggendo, oltre che le categorie concorrenti, anche i circuiti propri, degradando la F.1 a fogna del finto. Uomini e piloti finti, su tracciati finti che inscenano Gran Premi e soprassi finti – vedi drs -, con commenti a volte finti, per dar vita a un oceanico – sempre meno per la verità -, flusso di denaro vero.
E il peggio del peggio, negli Anni ’90 e nel terzo millennio, il vero essudato vomitoso dell’Ecclestonismo – ormai neanche più ascrivibile del tutto a Bernie Ecclestone -, esplode col prosperare della filosofia racing cafonal dei paddock immensi, degli edifici faraonici, monumenti al nulla e pure di quei villini degli orrori che sono i paddock club.
Un’ostentazione del ricco solo becera e offensiva, infalcita di tilkume in pista e nelle infrastrutture sterilmente e inutilmente, a sancire la morte dello Sport, la latitanza in pista dello spessore agonistico vero e la mera e la squallida esaltazione di un pestilenziale e globalizzante celodurismo finanziario. ’Na malinconia infinita, guarda.
Ecco, detto, scritto e ribadito tutto ciò che da anni dico e scrivo, per dirla come quel tale che campò come doveva ma finì male, I have a dream.
Sì, coltivo il sogno che piccoli gesti, tremolanti fiammelle accese – come quella di Hamilton che s’infila l’anello dell’eroe banzai Sato e di Alonso ormai a ruota nella sua magnifica ossessione di vincere dappertutto dopo lustri di batoste nella F.1 di cui era e potrebbe essere specialista massimo -, siano i primi segnali virtuosi di una timida ma costante e salvifica rivoluzione, non solo in F.1 ma per il Motorsport tutto.
Con la fine dell’era in cui i piloti dovevano essere coglioni mascherati da uomini e il ritorno dell’epopea in cui i campioni sono uomini coi coglioni.