L’11 agosto si voterà per il nuovo presidente della Federcalcio e oggi tutti si chiedono perché lo schieramento che difende il candidato Carlo Tavecchio sia ancora così consistente (si stima un 63% di consensi). Un partito piuttosto solido e articolato, a dispetto delle esternazioni fuori luogo dello scatenato leader della Lega Dilettanti (le banane dei neri che giocano in Italia, le donne handicappate nel calcio e l’accostamento fra se stesso e Oswald, l’assassino di John Kennedy).
Il vero problema di Tavecchio non è la sua caratura di dirigente, comprovata da una lunga militanza, ma la sua matrice umana. Carlo nostro è abituato a un linguaggio da bar, stile annni Sessanta, dove tutto è bianco o nero, dove le metafore sono spesso estreme e le sintesi decisamente semplicistiche. Poco abituato all’esposizione mediatica, rischia di collezionare altre gaffes di qui all’11 agosto e forse la sua strategia vincente sarebbe un lungo silenzio.
A favore di Tavecchio giocano la forza della Lega Nazionale Dilettanti, che esprime il 34% dei consensi e gli undici club di Serie A che restano schierati con il candidato anziano, a dispetto del dissenso crescente. Anche la statura del suo avversario, Albertini, è un vantaggio per Tavecchio. Vicepresidente uscente, l’ex milanista è stato pesantemente coinvolto nel fallimento della nazionale italiana ai mondiali brasiliani, dove faceva il dirigente accompagnatore. In più si è reso protagonista di una campagna elettorale timida, appena sussurrata, forse per non cadere nelle trappole dialettiche di Tavecchio.
Se ci fosse un terzo candidato forte, il calcio potrebbe davvero scegliere una strada nuova, ma se corrono soltanto Tavecchio e Abertini, l’ultrasettantenne resta favorito. Anche perché nel mondo del pallone le componenti forti hanno quasi tutte debiti di riconsocenza importanti verso Tavecchio e la sua Lega Dilettanti che con la forza dei numeri ha di fatto governato per anni la Federcalcio.
E’ triste dirlo ma il calcio è un po’ prigioniero di se stesso. Senza un gesto clamoroso, senza la discesa in campo di un supermanager o di uomo-simbolo che abbia carisma e spessore, la strada sembra segnata.