Pareva intento a pregare. Inginocchiato sulla valigia sporca e lacera in mezzo al marciapiede, i gomiti piantati sulla tela nera, il volto nascosto nelle palme, la nuca, bianca e offesa dalla calvizie, esposta al crudele sole estivo lungo il corso Mirabeau. Nessuno in giro per Aix-en-Provence a quell’ora. Troppo caldo.

Il vecchio non si muoveva. Mi avvicinai. Lo sentii sussurrare qualcosa di poco gentile all’indirizzo di un certo signore. Dei cieli e del sole, capii subito dopo. Non stava pregando. Questo era chiaro.

Serve aiuto?”, chiesi.

Fece sì con la testa. Gli infilai la mano sotto il braccio destro, sentii carne stanca cedere sotto la mia presa. Feci forza, lo tirai su di peso, le gambe gli tremavano. Ma quando fu di nuovo in piedi vidi per intero la sua figura magra: era ancora imponente, nonostante l’età. Sul volto scavato occhi scintillanti e gocce irriguardose che gli striavano le guance, aggirando il percorso di vene pulsanti. Piangeva.

Stava andando a casa?”, chiesi.

Sì”, rispose con voce soffocata e qualcosa mi disse che stava mentendo.

Lontano da qui?”.

No”. E alzò il lungo braccio indicando un incrocio a una decina di metri, mentre con la mano segnalava una svolta. A destra. O sinistra, non si capiva. Le sue dita ondeggiavano incerte. Aggiunse ansimando:

Rue Matheron. Non è distante”.

Dove abitava Cézanne?”, chiesi orgoglioso dei miei studi d’arte da dilettante.

No, lui stava al 14. Io al 2”, rispose infastidito.

Non fa niente. L’accompagno comunque”, mi offrii.

Grazie”, rispose e mi parve contrariato.

Questa la prendo io”, dissi indicando la valigia lurida.

Era molto pesante. Mi chiesi come avesse fatto quel vecchio a trascinarla fin lì, in mezzo alla strada. Dove stava andando? Davvero tornava a casa? O non era per caso possibile il contrario, cioè stava fuggendo? Non so perché, nel deserto di corso Mirabeau, tutte quelle domande all’improvviso mi affollarono la mente. Ma per me non era un fatto inusuale: sono sempre stato un tipo sospettoso.

Cosa porta con sé, pietre?”, provai a scherzare per diradare una certa tensione.

Il vecchio mi rivolse uno sguardo assassino.

Nossignore”, disse solo.

Decisi di tentare di conquistare la sua fiducia, ma nel presentarmi riuscii solo a balbettare:

Il mio nome è Jean….Jean Darrault”.

Mi chiamo Alphonse Mercier”, rispose secco il grande vecchio e lo disse come se confessasse un segreto.

Questa, almeno, fu la mia impressione. Non gli dissi che di mestiere facevo il detective privato. Non mi sembrò il caso. Mi dichiarai studioso d’arte.

Appassionato di Cézanne?”, mi chiese a bruciapelo.

Sì”, dissi senza riflettere e Alphonse Mercier mi parve sollevato dalla risposta.

Mentre trascinavo a fatica la valigia lungo il corso, ebbi come la sensazione d’essere spiato da dietro le persiane chiuse di quelle nobili facciate, l’atmosfera era tanto cupa che perfino i platani imponenti che ci sovrastavano mi parevano ostili e anche lo sguardo della statua di Renato D’Angiò, conte di Provenza, detto il Buono, non mi parve tanto benevolo. L’ho già detto, sono fatto così. Jean Darrault, il Sospettoso: ecco come mi chiamano i colleghi.

Perché poco fa piangeva?”, chiesi improvvisamente al vecchio, un po’ per coglierlo di sorpresa, un po’ per appoggiare qualche istante la valigia sul marciapiede e tirare il fiato.

I vecchi piangono spesso”, mi rispose subito Alphonse Mercier, senza perdere un secondo l’autocontrollo.

Non so perché fu proprio in quel momento che mi venne in mente l’articolo letto su “La Provence”. Istinto di investigatore, suppongo. Avevo trovato il quotidiano su un tavolino del Caffè “Les Deux Garçons” quello preferito da Zola e anche da Cézanne, guarda un po’ le coincidenze. Il titolo era esplicito: “Caccia al Barbablù della Provenza: ha già ucciso cinque donne”. L’articolo, scritto con una certa meticolosità, ricostruiva una precisa mappa errante degli omicidi fin lì commessi, tutti nel giro di un paio di mesi: partendo dalla Costa Azzurra, Barbablù aveva colpito la prima volta a Nizza, poi – spostandosi verso ovest – a Marsiglia, quindi – risalendo a nord – a Orange e infine – ridiscendendo a sud – ad Avignone e giù fino in Camargue, a Saintes-Maries de la Mer, ieri sera. Naturalmente nessuno conosceva l’identità del Barbablù della Provenza. Nessun sospetto o indizio accettabile. Su un’unica convinzione gli investigatori concordavano: tutti gli omicidi erano stati commessi dalla stessa mano. D’altra parte, era come se su ognuno ci fosse la firma: le vittime erano state tutte trovate, fatte a pezzi, dentro una valigia.

Alzai lo sguardo sul vecchio, che nel frattempo si era rimesso in piedi, e ora mi sovrastava. So bene perché – istintivamente – in quel momento calcolai la distanza fra Saintes-Maries de la Mer e Aix-en-Provence: 112 chilometri di strada, senza ripassare da Marsiglia, un’ora e un quarto di macchina, al massimo. A conti fatti, da ieri sera, di tempo ce n’era stato più che a sufficienza. Guardai Alphonse Mercier e ripetei la domanda:

Perché stava piangendo?”.

I vecchi piangono spesso”, disse nuovamente.

Poi fece una pausa e pareva intento a strapparsi l’anima mentre spiegava:

I vecchi piangono spesso perché hanno passato tutta la vita a stringere i denti e a trattenere le lacrime. E ora che sono vecchi e finalmente possono, e nessuno più li giudica, e niente più li ferma, e nulla più temono, ora, solo ora fanno ciò che molto tempo prima avrebbero dovuto fare: piangono. Spesso per colpa dei ricordi”.

E non piangono mai per amore?”, domandai cercando di evitare l’inganno della commozione.

A volte”, rispose Alphonse Mercier. E mi stupì.

Come si chiama sua moglie?”, chiesi all’improvviso, seguendo una mia personale pista investigativa.

Si chiamava Claudette”, rispose senza mostrare emozioni.

Si chiamava…E’ morta?”, domandai senza riguardo.

Sì”.

Quando?”.

Fece un gesto vago con la mano, come se non avesse più importanza.

Fu allora che gridai come un pazzo, quasi senza rendermene conto:

Quante ne hai uccise, Alphonse?”.

Il vecchio, come chi viene sorpreso sul fatto, mi fissò con odio. Poi drizzò la schiena, mi si mise di fronte, ficcando le mani nel lurido pastrano in cui era avvolto, nonostante il caldo di Aix-en-Provence. Di nuovo mi sovrastava, di almeno due spanne. Fui sicuro di udirlo rispondere:

Nessuna, Jean….Jean Darrault”.

Fui talmente certo d’aver udito quelle parole che replicai urlando:

Stai mentendo!”.

Fu paura quella che riconobbi allora nei suoi occhi. L’avevo in pugno. Perciò mi concessi un’altra domanda:

C’è ancora una cosa che non mi torna. Il vero Barbablù, quello di un secolo fa, nato a Parigi, prima prometteva alle sue vittime di sposarle, poi si faceva firmare una procura per accedere ai loro beni, infine le uccideva. Gli ci vollero almeno tre, quattro anni. Ma tu, Alphonse Mercier, detto il Barbablù della Provenza, non puoi aver giurato fedeltà e altare a tutte le donne che hai assassinato in soli due mesi. Non ne hai avuto il tempo. Dunque Claudette è stata la prima e unica moglie?”.

Fu smarrimento quello che lessi a quel punto nel suo sguardo. Come di chi non afferra ciò che sta succedendo. Era davvero bravo a fingere. Le mani ora fuori dalle tasche, abbandonate lungo i fianchi, disse solo:

Sì”.

Pareva affranto. E ancora più vecchio di quanto non fosse. Ma subito dopo, in un lampo afferrò la valigia. E cominciò a correre. Mi ci vollero un paio di secondi per riprendermi dallo stupore. Poi partii all’inseguimento. Era veloce. Davvero. E non so dove trovasse la forza di tenere ben saldo il suo pesante bagaglio, la prova del delitto. Lo raggiunsi solo alla “Rotonde”, la fontana in fondo al corso Mirabeau, quella – detto per inciso – che non piaceva affatto a Cézanne. Non ebbi riguardo: lo buttai a terra. Lottammo sul selciato. Nessun testimone, nel deserto estivo di Aix. Alla fine riuscii a bloccarlo e gli intimai:

E ora apri la valigia!”.

Si inginocchiò sul marciapiede. Chinò la testa. Muoveva lentamente le labbra, il resto del corpo immobilizzato: pareva intento a pregare. Piano. Capii solo due parole:

Perdonami, Claudette”.

Poi fece scattare la doppia serratura della valigia. Come una furia lo scansai, alzai il coperchio e vidi ciò che non avrei mai voluto vedere: cianfrusaglie e stracci.

I miei ricordi”, disse. E dopo una pausa aggiunse:

Tutto ciò che mi è rimasto di Claudette”.

Non capii. Qualcosa non tornava: dov’era finito il cadavere? E quella valigia, che significato aveva dunque? Solo una cosa l’avevo azzeccata: quell’uomo non stava tornando a casa, no di certo, effettivamente stava fuggendo, verso chissà quale meta. Ma tutto il resto intanto ridiventava un enigma. Se quel vecchio era solo un vecchio di nome Alphonse Mercier, che fine aveva fatto il Barbablù della Provenza, assassino senza identità? E soprattutto: Mercier era davvero innocente? Non ottenni risposte, né da lui, né da me stesso.

Lasciai lì Alphonse, piegato sulla sua valigia spalancata. Pregava ancora. E piangeva. Mi chiesi perché. Mi risposi: forse perché i vecchi hanno passato una vita a trattenere le lacrime, a stringere i denti nonostante tutto e ora che possono, soltanto ora finalmente, fanno l’unica cosa che da tempo avrebbero dovuto fare, piangono. Davanti ai propri ricordi.

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E questa è tutta la storia, dottore. Roba da impazzire. Comunque gliel’ho raccontata per filo e per segno. Ora posso uscire da qui?”.

L’uomo in camice bianco non mi risponde, ma fa un cenno a due inservienti. Non riesco a sentire tutte le parole. Mormora che sicuramente la mia malattia risale molto prima dell’incontro con Alphonse Mercier. Poi si raccomanda: “Chiudete bene i cancelli”. Non occorre avere l’istinto di un investigatore per capirlo: non uscirò mai più dal manicomio di Saint-Rémy-de-Provence.

                                                   Gianluigi Schiavon