Passati due secoli, 81 anni, 11 mesi e 25 giorni esatti dalla morte di Giacomo Serpotta, riconosciuto principe del barocco e insuperabile maestro nell’arte dello stucco, Domenico Mandalà ne se stava al sicuro nella penombra della sua bottega di Vucciria, malandato quartiere di Palermo. Aspettava. Era martedì. Mancavano ancora due giorni.

Sì, pure lui lo sapeva che la cifra degli anni fin lì trascorsi tonda non era e la ricorrenza bislacca assai e, con rispetto parlando, anche un po’ fitusa, perché quella data – mischina – poco si prestava alla bisogna, visto che di festeggiare un anniversario al numero 282, mai, proprio mai, si sentì dire. Né a Palermo. Né altrove. In effetti, meglio e più acconcio sempre fu – dai tempi dei tempi e in ogni luogo – celebrare il centenario, il bicentenario e, se proprio ne fosse valsa la pena, addirittura il tricentenario di ogni occasione che meritasse tanta attinzioni. Ma, per i primi due, Domenico Mandalà era decisamente in ritardo e per il terzo in largo, inutile anticipo. L’anagrafe lo aveva già condannato: si sentiva, ed era, vecchio e stanco. Di arrivare vivo e in salute al 2032 appariva impresa manco da sognare. Perfino se la mafia l’avesse lasciato in pace.

E dunque, gli venisse un colpo, il giovedì che stava arrivando, tra meno di 48 ore, lui, Domenico Mandalà, semplice artigiano dello stucco, ma suddito fedele del barocco, avrebbe commemorato solennemente la morte del suo maestro ispiratore, 282 anni dopo la medesima. Comunque, a dispetto dei numeri e delle consuetudini, se lo sentiva: sarebbe stato un anniversario speciale. Per Giacomo Isidoro Nicolò Serpotta, detto semplicemente il Serpotta, scomparso dunque a Palermo il 27 febbraio 1732. E anche per lui.

Fu mentre Domenico Mandalà, detto semplicemente Mimmo, rifletteva su tutto questo e sul valore della vita, che sentì lo schianto. Si voltò verso la vetrina della bottega, ma non la vide lì dove solitamente stava. Dovette alzarsi dal suo sgabello da lavoro e sollevare da terra, tra frammenti e schegge, il mattone venuto dal nulla per avere conferma di ciò che già sapeva. Il mattone era avvolto in carta da pacchi. Sul lato interno una scritta in stampatello:

                                         NON HAI PIU’ TEMPO

Ma più della minaccia e della paura fu il disappunto a prevalere nella testa di Mimmo Mandalà. Perché quella sassata tirata da mano vile e cattiva infrangeva una sua intima convinzione. E fu mentre ripensava a tutto questo e al valore delle idee che avvertì il cigolio lieve e malinconico della porta della bottega. Fece uno scatto, il suo sguardo già pronto al peggio. Si voltò, ma non vide nulla. Di interessante, per così dire: solo un turista.

Buongiorno – disse il tizio in pantaloncini corti nonostante la stagione, in contrasto con la felpa imbottita a righe grigie e bianche – Posso dare un’occhiata alle sue statue?”.

S’accomodasse”, disse Mimmo Mandalà, senza entusiasmo.

Non gli piacevano i turisti, specie chiddi del Nord. Non che con i compaesani avesse rapporti migliori. Ma così era. E se qualcuno non capiva, peggio per iddi.

Belle, le fa lei?”, chiese il tizio con le gambe semi-congelate.

E chi sennò? La Madonna di Custonaci?”.

Chi, prego?”.

Appunto, lasci perdere”.

Fu così, lungo il confine tra fede e diffidenza, solitudine e desiderio di spartire paura e coraggio, che tra quei due nacque nell’immediatezza qualcosa che nessuno in quel momento avrebbe mai potuto chiamare “amicizia”, ma certamente “solidarietà” o forse addirittura “comprensione”. E sarebbe stato già un bel risultato. Visto che Domenico Mandalà, detto Mimmo, non si fidava più di niente e nessuno, ma si ritrovò di punto in bianco disposto a rivelare a quel turista mal vestito le sue più riservate convinzioni e anche un paio di segreti.

Benvenuto nella terra delle contraddizioni”, disse tanto per capire che di che pasta fosse fatto quel tipo.

Grazie, me le spieghi”, rispose l’altro senza scomporsi. E Mandalà, soddisfatto della replica, partì:

Conosce il Serpotta?”.

E non aspettò altri inviti. E rovesciò sul turista tutte le sue conoscenze e passioni, e senza darsi tregua né fiato magnificò l’opera intera del suo maestro e ispiratore, che rivoluzionò l’arte del decoro in chiese, oratori e saloni pubblici e privati della città, e con le sue statue popolò l’intera Palermo ma si spinse anche fino ad Alcamo ed Agrigento, e come un dio terreno da materia inerte ottenne la vita, e come uno stregone in un sacro rito impastò il gesso con colla di pesce, polvere di marmo, sabbia, calce spenta, latte cagliato e secondo qualcuno anche sangue, fino a ricreare la sensazione – reale al tatto e alla vista – di carne pulsante e di volti più veri di quelli che per strada incontri…

E la contraddizione dove sta?”, l’interruppe il turista che non dedicava tanta attenzione al vestirsi quanta ne prestava alle parole.

Venga con me”, fu l’unica risposta di Domenico Mandalà che prese sottobraccio il visitatore e lo trascinò fuori dalla bottega. Fu – detto per inciso – in tale circostanza che nella fretta dimenticò la porta aperta e la serranda alzata.

Attraversarono di buon passo mezza Vucciria. via Coltellieri, poi vicolo della Guardiola, costeggiarono la Chiesa di San Domenico, superarono piazza Meli e imboccarono via dei Bambinai. Al numero 3 di via Valverde Domenico Mandalà si bloccò con sguardo da pazzo.

Arrivati siamo”.

E con solennità salì la scalinata che porta all’Oratorio del Rosario di Santa Cita. E raggiunta la grande Aula, fissando le pareti interamente ricoperte di stucchi, Domenico Mandalà, l’artigiano che sognava di superare il maestro, illustrò al suo ospite le raffigurazioni ridondanti e quasi rococò di Misteri Gaudiosi, e di quelli Dolorosi e anche di quelli Gloriosi, tra figure divine, personaggi e anime delle Sacre Scritture, il tutto in un tripudio di putti festosi e danzanti.

Chistu fu il Serpotta”.

Ma la contrad…?.”.

Mandalà lo interruppe: “Basta guardare”.

E indicò il volto di Cristo, di Maria e degli angeli. E disse: “Cosa vede?”.

Facce normali”.

Esatto! Quello non è Gesù, ma in verità forse era un vicino di casa del Serpotta, e quella Madonna era una lavandaia e questi non sono putti ma bambini, i bambini di Palermo. Serpotta rubava i volti alla gente comune, agli abitanti di Vucciria o della Kalsa, il quartiere qui vicino, dove era nato. E questa è la sua grande contraddizione e la sua forza: raffigurare scenari allegorici con gente vera. Ma pagando in questo modo un prezzo altissimo: il suo paradiso così non è credibile, perché altro non è che il nostro inferno, mascherato, qui sulla terra”.

Uscirono dall’Oratorio del Rosario di Santa Cita passando sotto la rappresentazione della Battaglia di Lepanto, lo scontro sublimato tra cristiani e infedeli, che inutili lutti inflisse a entrambe le parti. Il turista non poté non notare le statue di due adolescenti affranti alla base della scena guerresca.

Anche loro due ragazzi di Palermo?”.

Ci putissi scummintiri”.

Tornarono a passo lento da dove erano partiti, dopo aver percorso a ritroso il viaggio attraverso Vucciria. E trovarono il negozio devastato.

La porta a vetri d’ingresso era sfondata: dentro, un paesaggio bianco di detriti, polvere di gesso e marmo e sabbia ovunque, colla di pesce rovesciata, mischiata sul pavimento a latte cagliato e calce spenta, e poi teste mozzate, gambe e braccia oltraggiate, sorrisi spezzati e ghigni involontari su crepe brutali.

Le sue statue!”, urlò il turista, con vero sgomento.

Già”, disse piano Domenico Mandalà, con reale rassegnazione.

E raccolse da terra un foglio di carta da pacchi. C’era scritto, in stampatello:

                                           IL TUO TEMPO E’ FINITO

Chi può essere stato?”.

Domenico Mandalà, detto Mimmo, fece fatica a dire:

La mafia”.

Evidente”, disse l’altro, senza sforzo.

No, strano!”, lo bloccò l’artigiano dello stucco, che temeva di infrangere una propria intima convinzione, tanto da finire con il confonderla con una speranza ancor più riservata. “Stranu – continuò – perché la mafia non è più qui. Lo dicono tutti: è salita al Nord. Ora ce l’avete voi, voi del Nord!”.

Sì, ma è qui, al Sud, che qualcuno, è evidente, sta cercando proprio lei!”.

Vero è – disse Mimmo Mandalà, sedendosi sullo sgabello di lavoro, come a cercare protezione in un gesto usuale – E questa resta l’ultima, grande contraddizione. Nemmeno io me l’aspettavo: sono tornati e quello che cercano è solo vendetta. Ho passato la vita a combatterli, denunciarli, volevano soldi e non glieli ho dati, pretendevano collaborazione e l’ho rifiutata. Cercano vendetta. Ma non sono i soli: la voglio anche io”.

Cosa farà, ora?”.

Tra due giorni ho un appuntamento importante: commemorare la morte del mio maestro, Giacomo Isidoro Nicolò Serpotta, detto semplicemente il Serpotta”.

Non mi sembra la cosa più importante da fare, in questo momento”.

Lo dice lei”.

Maestro, – ripeté il turista all’artigiano – cosa farà ora?”.

Qualcosa mi inventerò”.

La mattina del 27 febbraio 2014, passati 282 anni esatti dalla morte di Giacomo Serpotta, principe del barocco e insuperabile maestro nell’arte dello stucco, a Palermo, nell’Oratorio del Rosario di Santa Cita venne ritrovata una nuova statua. Con stupore di autorità cittadine e rispettabili esponenti della onorata società, stava sistemata precisamente sotto la Battaglia di Lepanto, tra i due adolescenti affranti per la scena guerresca. Un esperto d’arte disse che opera del Serpotta pareva proprio. Qualcun altro annotò che tanticchia ricordava una figura plebea, uno del popolo. Un tale, abitante in via Coltellieri, fu lapidario nell’affermare che uguale, ma proprio uguale era, comu nu specchiu. a Domenico Mandalà, detto Mimmo, l’artigiano di Vucciria, da quel giorno sparito nel nulla. I giornali parlarono di “lupara bianca”. La polizia concluse che di fuga volontaria si trattava.

Gianluigi Schiavon