Coulibaly Drissa, 28 anni, dalla Costa D’Avorio

 

Reggio Emilia, 29 agosto 2015

 

ALL’IMPROVVISO, gli occhi si riempiono di lacrime. Tra una boccata di sigaretta, un sorriso spalancato e mani grandi che pennellano gesti nell’aria. Eccoli i profughi in servizio a Festareggio. Ragazzoni, uomini robusti. Magliette colorate su corpi d’atleta, pelle d’ebano, e un carico di dolore che non si riesce a nascondere nemmeno sotto le risate più fragorose.

Lì, seduti su una sedia di plastica sotto un tendone del Campovolo, di colpo, le polemiche non contano più. Parla la vita per loro, più forte della morte. Parlano i loro vent’anni e quella voglia di riscatto, più potente della guerra. «Il viaggio? Non ce la faccio a raccontare. Mi fa troppo male. Ho visto morire cinque miei amici, entrava acqua dalla barca, c’era freddo. Tanto freddo, era febbraio. Io mi sono salvato solo perché avevo portato il giubbotto. Ringrazio Dio… Ma non lo dimenticherò mai».

Lampedusa oggi è solo un nome. Uno stereotipo. Onde chiare; paradiso vacanziero ormai sinonimo del loro approdo, di centri accoglienza. Lampedusa è lo strazio, famiglie spezzate, corpi stremati. Fotografie disumane di esistenze stipate in pochi metri quadri, uno sopra all’altro. Peggio che le bestie. «Senza mangiare per giorni. Senza bere. L’odore di benzina che ti entra dal naso e ti martella il cervello, ti stordisce. Gira la testa, non capisci più niente». Forse, chissà, è meglio così. Forse, è preferibile non rendersi conto. Finché, non arriva il miraggio.«Io non sapevo nemmeno come si chiamasse quell’isola. Sapevo solo che era terra, che eravamo salvi». Non dirà altro Coulibaly Drissa, 28 anni, dalla Costa D’Avorio, nel suo francese stentato. Lampedusa, lui, non l’aveva mai sentita nominare.

A casa Drissa ha lasciato la madre. Qualche ricordo. Davanti ora ha il suo futuro. Si chiama Italia, dice. «Qui mi piace, ci trattano tutti bene». Dice che non vuole tornare indietro. Resta con lo sguardo fisso, ficcato su una lattina di Pepsi. Caccia indietro la commozione, ora che si trova a migliaia di chilometri da quel mare nostrum che lo ha portato fino alle cucine di un ristorante di pesce della festa del Pd. Sa della bagarre che si è scatenata a causa della loro presenza. Lo sanno tutti. Ma non si scompongono.

«NOI siamo qui volontariamente per dare una mano, non per fare politica. La politica non ci interessa, anzi, credo sia un problema. In Africa scatena le guerre. Noi veniamo per imparare la lingua, stare in mezzo alla gente, fare qualcosa… Tagliamo i pomodori, le verdure, prepariamo la tavola, ci diamo da fare». Parola di Nelson, 29 anni, nigeriano, cappellino all’indietro. Keita Mandgiou, ivoriano di 24 anni, annuisce. «Siamo qui per fare tutto quello che è buono nella vita». E alla domanda sul che cosa sia buono nella vita, risponde senza esitazione: «Lavorare».

Babakhar ha una maglietta nera, la cresta, una vistosa collana portata con la gioia dei suoi 21 anni. Dice che è un simbolo dell’Islam. Una sorta di rosario, per pregare, mentre smozzica uno stuzzicadente. «Vengo dal Senegal e se non fossi qui tutto il giorno al centro non farei niente, se non andare a scuola di italiano, tre volte la settimana, due ore al giorno. Non posso dormire tutto il tempo, non è normale. Però di bello c’è anche che a volte giochiamo a calcio, tutti assieme, ai campi di via Adua». Numero sei lui, al centrocampo.

La storia di Berthe Dramane, 30 anni, ivoriano, è quella di un uomo scappato dalle botte, dalla paura. «La testa spaccata con un fucile, un’operazione; poi nell’esercito libico per un anno e sette mesi. Lì c’è il commercio degli uomini, è disumano. Ti trattano come una cosa che si può comprare; tutto ha un prezzo, anche la tua vita». Due volte in prigione, «senza un motivo; sono uscito solo perché qualcuno ha pagato per me e ancora non so di che cosa fossi accusato».

Per questo ha preso il barcone. Una tratta gratuita, per tutti. Non hanno pagato un soldo, dicono. «Sapevo che sarebbe stato pericoloso. Ma non potevo più stare là. Dovevo provare, rischiare, per me. Per tutti i miei cari». Non aveva più nulla da perdere, soltanto il suo respiro. Il battito del suo cuore. Quello che ha tentato di tenere stretto fino alla fine. Fino in mezzo al Mediterraneo. Fino a oggi, che in tasca dice di non avere niente, se non la sua dignità. 

Nel suo Paese, Berthe ha lasciato una moglie morta di parto. E un figlio che non ha mai visto, ma che porta il nome di suo padre, Ibrahim. Tira fuori il cellulare. Uno smartphone dal vetro crepato in cui custodisce i suoi ricordi più cari. Le foto stropicciate degli uomini in trincea, ora sono scatti sul telefonino. Preziosissimi, come allora; l’ultimo appiglio con le proprie radici. Mostra una donna radiosa, negli abiti sgargianti e dorati della sua terra. La sua, donna. «Non era bellissima?» La guarda. E sorride orgoglioso. Lucciconi corrono veloci verso il basso, pronti a crollare. Lui scuote la testa, non è questo il momento per le debolezze.

Ma sì, lo era davvero. Bellissima Berthe. «A casa ero autista di bus, mi piacerebbe farlo anche qui. Ma se non imparo bene la lingua non sarà possibile fare niente. E’ questa ora la mia priorità. Ora cerco la pace, solo questo. E qui, mi sembra di averla trovata».

Pace.