cover moggi2Reggio Emilia, 4 ottobre 2016 – Piaccia, oppure no, c’è una certezza: Luciano Moggi e il mondo del calcio, per decenni sono stati sinonimo uno dell’altro. Da una parte c’era lui: il manager dalla parlata inconfondibile, quello che ha ispirato decine di imitatori. L’uomo odiato, stimato, invidiato, copiato.

Sulla sponda opposta c’erano gli altri. Tutti gli altri. Intenti fin da subito ad appiccicargli etichette. Mentre lui, Moggi, un gradino alla volta, diventava il dirigente sportivo più temuto d’Italia. Lui, che partiva da un umile borgo della Toscana, da un padre boscaiolo, da un posto fisso nelle Ferrovie dello Stato e da un’ambizione che non conosceva confini.

C’è tutto questo, e molto di più, ne Il pallone lo porto io, il libro che Luciano Moggi ha scritto con Andrea Ligabue, giornalista de Il Resto del Carlino, edito da Mondadori. Quarant’anni di calcio. Quarant’anni di giocatori entrati nel mito, allenatori-icona, trattative nascoste, retroscena, segreti e rivelazioni clamorose.

C’è la parabola professionale dell’uomo, Moggi, raccontata in prima persona. Un’avventura partita dalla provincia senese e culminata come direttore generale della Juventus, il club più prestigioso d’Italia, all’epoca dei suoi massimi storici. L’Era della Triade, per intenderci (assieme a Giraudo e Bettega). Il tempo di tutti i trionfi. E anche quello dello stop, arrivato bruscamente  in uno di quei giorni. Una frenata improvvisa che prese il nome di Calciopoli.

Leggere queste 192 pagine è come sedersi al bar Sport più importante d’Italia, senza scherzi. Ed essere protagonisti delle confidenze di chi ha tenuto le redini del pallone per decenni.