marco-gibertiniReggio Emilia, 17 settembre 2016 – Dovranno interrompere l’udienza per circa venti minuti. Perché Andrea Cesarini, ex imprenditore viterbese di 40 anni, non riesce nemmeno a parlare. Singhiozza, si gratta il polso nervosamente. Le sillabe che inciampano nei denti.
«Ho pagato, anche se a loro non dovevo niente. Mi hanno detto che così stavo comprando la tranquillità, la vita dei miei figli».  Allora «dovete alzare il prezzo, ho risposto. La vita dei miei figli non vale 350mila euro». Poi, scoppia a piangere. Perdutamente. Prima sul banco dei testimoni, poi nell’angolo in cui si va a sedere.

Quell’uomo, nella sua polo bianca sportiva, con la testa china e una bottiglietta d’acqua in mano in attesa di ritrovare le parole, ha spazzato via d’un tratto la reticenza ventilata più volte nell’aula bunker di via Paterlini. Il suo è stato un pugno nello stomaco, per chiunque fosse lì, impotente, di fronte al racconto di un’esistenza azzerata, di una ricchezza ceduta alla violenza, pur di proteggere i propri cari.

È parte civile del processo Aemilia, lui. Una delle pochissime persone che ha trovato la forza di farsi avanti. E parlare. «Avevo un’azienda che lavorava da vent’anni, una Lamborghini, stavo bene. Ora non ho più niente. Faccio il dipendente per tirare avanti, mi hanno prosciugato».

Imputati – in concorso, per estorsione aggravata dal metodo mafioso nei suoi confronti – Luigi Silipo (45 anni cutrese residente a Cadelbosco Sopra), Omar Costi (imprenditore reggiano di 42 anni) e Mario Cannizzo (ex carabiniere di 58 anni); assieme a loro Nicolino Sarcone, Antonio Silipo, il giornalista Marco Gibertini e Vittorio Mormile, tutti già condannati, con pene pesanti, in abbreviato.

Cesarini è in affari con Costi, fra il 2012 e il 2013. Ma qualcosa va storto. «Omar ha iniziato a sostenere che avevo un debito di oltre un milione di euro con lui. Non era possibile. Così mi ha invitato da un commercialista di Reggio per avere un incontro e chiarire. Arrivai in centro, in via San Martino, ma mi trovai di fronte persone che non conoscevo che parlavano con accento meridionale».

La voce trema. Ma non si ferma. «Carte alla mano ho dimostrato di non avere quel debito. Ma Costi insisteva, diceva che di sicuro gli dovevo almeno 120mila euro. Nel frattempo avevo messo in vendita la mia Lamborghini e una persona me l’aveva chiesta in prestito per un matrimonio». Lui, quell’auto, non la rivedrà più.

«Dopo l’incontro dal commercialista Costi volle vedermi in azienda. Trovai lì tre napoletani, tra loro un tale Vittorio. Dicevano che quel debito che avevo con Costi adesso era loro. ‘Ci vediamo prima del compleanno di tuo figlio’, mi dissero. Non so come sapessero che avevo un neonato di meno di anno».

Torna a Roma Cesarini, fruga tra le carte. Sa di avere ragione. Si ripresenterà a Reggio con la consapevolezza di non aver alcun debito. Ma stavolta i napoletani («appartenenti ad altra analoga organizzazione criminale di matrice campana operante in Roma», si legge sul capo di imputazione) lo porteranno a casa di Antonio Silipo.

«‘Quando si arriva qui è il capolinea’, mi disse lui. ‘Qui si decide tutto’. Io continuavo a protestare. Tutti ormai sapevano che io non dovevo quei soldi. A un certo punto arrivarono anche Gibertini e Costi. Silipo mi disse: ‘Abbiamo capito per il debito, non è tuo. Ma per tranquillità tua e della tua famiglia… ’ Gli dissi che allora quella era un’estorsione a tutti gli effetti. Lui rispose: ‘No,non dire così… Piuttosto pensa che stai comprando  la tranquillità dei tuoi figli… La loro vita’. Così firmai tre assegni, per 350mila euro. Dissi loro che se li avessero incassati mi avrebbero rovinato. ‘Non ti preoccupare’, mi rassicurarono. ‘Ci pensiamo noi’».

Oggi la sua azienda è fallita.