Roberto Alfonso (fotoSchicchi)

Roberto Alfonso (fotoSchicchi)

 

Luglio 2015. Il solito bar. Domenica mattina. Una partita a carte, con gli amici. Compaesani. Lì, dove tra una smazzata e l’altra, tra le giocate vola anche quella sincerità che solo il dialetto può veicolare. Un modo per sentirsi, comunque, con le radici ben piantate in terra.

Così, al Baricentro di via Dalmazia, un gruppetto di cutresi commenta ciò che sta accadendo in città, dopo le retate di Aemilia e le dichiarazioni del procuratore capo di Bologna. «Inquieta e preoccupa – aveva sottolineato Roberto Alfonso in seguito ai nove nuovi arresti – perché se mentre due persone stanno parlando, una dice all’altra: ‘a Reggio Emilia sono circa 7mila calabresi e 3 o 4mila sono a Parma’ io ho ragione di preoccuparmi. Si parla di persone che in qualche modo e a vario titolo sono vicine all’organizzazione. Il problema è relativo al fatto che l’organizzazione può contare su questa imponenza di forze».

Loro, però, scuotono la testa. Cutresi-reggiani, accento forte e sguardo fiero. Loro, quelli che chiedono che non si faccia di tutte le erbe un fascio. Che non si generalizzi. Per chi ha lavorato onestamente una vita. Per i loro figli che vanno a scuola e ora vengono additati. Semplicemente, perché «non è vero».

«Quelle del procuratore sono parole che colpiscono una comunità radicata a Reggio dai primi anni Cinquanta; molto prima della venuta della mafia con i soggiorni obbligati. Basta pensare che Dragone è arrivato nel 1982… E allora dire calabresi non può diventare sinonimo di mafiosi… Non è giusto. È una follia». Il ragazzo che passa di lì ha la parlata emiliana, ma il cuore al sud, ancorato alle sue origini. Non dirà altro. Non serve.

A proseguire, più coloriti, quegli artigiani edili seduti intorno al tavolo, in attesa del pranzo domenicale.

«Guardi le mie mani… Guardi le bruciature, le piaghe, i tagli… Le sembrano le mani di un mafioso? Io lavoro per imprese reggiane, da una vita. Lavoro sodo – sbotta lui, con lo smanicato blu e la pelle abbronzatissima –. Pensiamo solo alla nostra famiglia, paghiamo le tasse, di questo ci importa: lavorare».

Poi, dicono, i delinquenti ci sono in ogni comunità. «Saranno l’1%, il 10%… Non lo so… Ma non si può dire che ci sono 7mila mafiosi a Reggio. Le persone non sono tutte uguali. Siamo anche gente perbene, ci vestiamo dai cinesi, per risparmiare, non abbiamo macchinoni. Partiamo da casa alle 5 di mattina per andare in cantiere e torniamo alla sera… Non è giusto che i nostri bambini ora vengano additati come figli di ’ndranghetisti. Perché è quello che sta accadendo».

Si apre la porta a vetri. Esce un altro. Si accende una sigaretta. «Sa qual è il problema? La politica. Ora hanno deciso che vogliono mandarci via, dopo che abbiamo contribuito all’economia di questa città.E così è tornato il razzismo… Ci chiamano voialtri, ci guardano con sospetto. Hanno usato i cutresi per raccogliere voti e adesso dicono che siamo tutti mafiosi. Punto. Lo scriva, per favore. Lo scriva».