Nicolino Grande Aracri

Reggio Emilia, 5 luglio 2017 – «BUONGIORNO a tutti». Saluta con la manina, ringrazia. Capelli quasi completamente bianchi, una polo arancio a maniche corte, fogli sparsi sul banco. Orologio sportivo. Molto diverso da come lo raffigurano le vecchie foto a disposizione, prima che entrasse di nuovo in carcere.

Allora Nicolino Grande Aracri, il boss della ’ndrangheta calabrese che ha dato il nome a una delle maggiori cosche mafiose contemporanee, appariva in cappotto, giacca e cravatta mentre usciva dall’ufficio della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini. Ieri, collegato in videoconferenza per l’udienza di Aemilia dal carcere di Opera in cui è recluso, quel volto sanguigno da «contadino» – come lui stesso ama definirsi – rimbalzava su ogni monitor quasi sorridente. La voce più sottile di come si immagini: «Voglio rispondere, non ho niente da nascondere».
LUI, accusato di aver sparpagliato la ’ndrangheta per mezza Italia e averla fatta radicare al nord; lui, per il quale non si contano le condanne (tra le ultime 30 anni per l’inchiesta Kyterion di Catanzaro per associazione mafiosa e 6 anni e 8 mesi, nell’abbreviato di Aemilia); lo stesso uomo accusato di essere stato il mandante dell’omicidio del capoclan rivale Antonio Dragone, ieri è stato l’unico ad accettare di prendere la parola e rispondere alle domande degli avvocati difensori che lo avevano inserito nella loro lista testi.

Prima e dopo di lui i Nicolino Sarcone e Antonio Silipo (entrambi già condannati a 15 e 14 anni di reclusione nell’abbreviato di Aemilia) si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Lui no.
Ma ‘mano di gomma’ «è una scheggia impazzita, quando inizia a parlare non la smette più, non sai mai cosa possa dire», il vocio tra gli avvocati in aula. Così, quasi tutti coloro che ne avevano richiesto l’esame si sono defilati all’ultimo. «Rinunciamo».
È RIMASTA in piedi solo Carmen Pisanello, legale di Michele Bolognino, decisa a fare le sue domande al boss (difeso in aula dall’avvocato Giuseppe Migale Ranieri in sostituzione di Gregorio Viscomi). E così Pisanello è partita, chiedendo conto al cutrese di 58 anni del suo rapporto con Bolognino, partendo da una intercettazione (contestata dalla procura) in cui lo avrebbe definito ‘stroscio’. «Nel 2012 non ho mai gestito attività di ristorazione; né in Calabria né al nord Italia».

Ha investito denari? «No. Assolutamente no. Bolognino l’ho conosciuto moltissimi anni fa. Poi l’ho visto un paio di volte nell’azienda della mia proprietà. Era venuto con un ragazzo. La conoscenza risale agli anni Ottanta, perché lui si era sposato in un paesino vicino a Cutro». E si torna su quella intercettazione della discordia. Nella sua tavernetta, a Cutro, 4 gennaio 2013. «Sì mi ricordo, ma non so bene… Ma ha ragione il pm… Questa trascrizione non so chi l’abbia fatta, forse la polizia giudiziaria… Ma non vanno bene. Nel processo Aemilia trovate una denuncia per travisazione delle intercettazioni. Spesso il parlato viene travisato. Per questo ho fatto una denuncia, ora pendente presso il gip, per travisazione delle conversazioni».

Pisanello, però, insiste. Che significa ‘stroscio’? «Una persona da nulla, una persona che non vale niente. Io non posso ricordare a chi era riferito… Non so nemmeno il punto, di che cosa si parlava. È un mio linguaggio, lo dico a più persone, è probabile che lo abbia detto». Che cosa ne pensa di Bolognino, allora?, incalza lei. «Io con Bolognino non c’ho avuto a che fare. Lui è venuto a trovarmi a casa con una scusa, con i pasticcini. E lì ci siamo conosciuti. Nel 2012-2013 con un ragazzo, io stavo facendo lavori in un’azienda, e lui è venuto a dire che aveva bisogno del trattore. Poi è tornato nella mia tavernetta. Mi diceva: ‘Faccio lavori edili, 100mila euro di qua, 100mila euro di là, ho un ristorante in gestione, faccio tutti questi lavori, conosco questo, conosco quello…’ Non so cosa fosse vero. Per me era uno così… Non ho avuto a che fare con Bolognino».

Ma lei ha mai detto che Bolognino era l’ultima ruota del carro o forse neanche parte del carro? «È possibile, perché era uno che appena sapeva una cosa la diceva. Non era una persona di mia fiducia, parliamoci chiaro. Non avevo un rapporto di stima e amicizia. Io non ho mai avuto a che fare con lui, mai avuto ristoranti con lui, anche se sono stato anche condannato per questo. Ma vi assicuro che non ho mai avuto a che fare con lui. Sapevo che lui cambiava gestione, più di una volta. Ma io ero già in galera».
TUTTO d’un tratto, poi si cambia ritmo. Il boss dall’accento forte, viso arcigno, parte per la tangente.
«Poi non è possibile appartenere a due associazioni contemporaneamente. Uno che fa parte di una associazione fa parte di una sola. I pentiti dicono tante cose… Di avere a che fare con gli Arena e i Grande Aracri: ma assolutamente non può essere possibile. Erano cosche contrapposte. Io non ho niente da nascondere. Voglio che le cose vengano alla luce, uno che fa parte di una cosca non può fare parte di un’altra. Uno che è nella cosca Grande Aracri non può andare dagli Arena o dai Ciampà».

Allora esiste la cosca Grande Aracri?,chiede il presidente del collegio Caruso. «La cosca Grande Aracri è stata costruita dalla giustizia. Io sono stato condannato in via definitiva, è inutile che vi dico che non esiste. Ma io mi ritengo assolutamente estraneo e innocente». Ma la cosca Grande Aracri esiste o no? «Non posso dire che non esiste una cosca se ci sono sentenze. Ma la mia cosca Grande Aracri è stata costruita a tavolino. Fino al 2000 non c’era, tutti i Grande Aracri hanno sempre lavorato, poi per farmi dispetto hanno costruito la cosca. Io fino al 2000 avevo il certificato antimafia. E avevo lavori in Germania che nessun collaboratore di giustizia ha mai detto».
Così, nel pieno del suo flusso di coscienza, l’esame si è interrotto dopo venti minuti. Nessuna altra domanda.