Ancora una volta sono le due Hollywood a spartirsi il trionfo. Da una parte l’impegno e la memoria di ’12 anni schiavo’, la pagina nera della schiavitù americana alla quale solo un britannico ha saputo dare voce. Dall’altra la tecnica senza confini di ‘Gravity’, pellicola che ha silenziosamente fatto incetta di premi davanti ai 36 denti di stracircostanza di Scorsese e Russell, gente che preferisce il botta e risposta a 5 al piano sequenza nello spazio di 18 minuti.  Era successo l’anno scorso (Argo-Vita di P) e in alcune delle edizioni più recenti: esistono due cinema che esultano insieme e non si pestano i piedi. Il londinese Steve McQueen sancisce una maturazione velocissima: sono bastati sei anni per partire da ‘Hunger (2008), passare da ‘Shame’ (2012) e concludere con ’12 years a slave’ (tre statuette, anche scenggiatura non originale e miglior attrice non protagonista). Il talento non è più (solo) capacità grezza di raccontare l’ossessione attraverso la consunzione. McQueen riesce a elevare quell’intelligenza narrativa, a trasformare il suo racconto da didascalia della sofferenza ad affresco del riscatto. Un’affermazione in chiusura meritata, che non scippa la ribalta alle sette statuette (le categorie tecniche, fotografia e colonna sonora) di Alfonsito Cuaròn. Non più solo uno dei registi della saga di Harry Potter, non  più soltanto il terzo bravino della nouvelle vague messicana dei Del Toro e Inarritu. Cuaròn dà seguito al visionario ‘I figli degli uomini’ e vede onorata la sua sfrenata ambizione: la tecnica di domani al servizio del desiderio del primo giorno del mondo. In questo passaggio il vero e forse unico punto di contatto tra i due film trionfatori agli Oscar 2014: in entrambi s’impugna la resurrezione dal dolore.

Ma è anche la notte di Paolo Sorrentino e della ‘Grande Bellezza’, premiato dalla coppia Ewan McGregor-Viola Davis senza la Loren di turno a farci lacrimare, purtroppo. I fenicotteri rosa sono ancora lì, a fissare lo skyline del Cinema. Vince quest’ultimo, perché quello del regista napoletano è un quadro che non puoi smettere di guardare. E’ bellissima, appunto, la parabola di un artigiano della visione che film dopo film aveva già creato un punto di arrivo. Dalla festa in casa di Pomicino nel ‘Divo’ fino alla ormai sequenza cult di apertura della ‘Grande Bellezza’. Storditi e delusi dalla vita, come Jep, facciamo volentieri un applauso a Paolo. L’uomo in più del nostro Cinema.

Nello show di Los Angeles, presentato con sobrietà e velocità da Ellen DeGeneres, gli sconfitti sono DiCaprio, Martin Scorsese e American Hustle. Il film di David O.Russell è stato snobbato su tutta la linea, ma dopo ‘The Fighter’ e ‘Il lato positivo’ ci si può anche accontentare. Leo non ha vinto nemmeno quest’anno e ci chiediamo quando potrà riuscirci. McConaughey superiore? Siamo lì. Meritano pienamente invece Jared Leto e la Blanchett, spinta dal Woody Allen touch. Tra i premiati fa capolino anche il Gatsby di Luhrmann (costumi e scenografia), uno che all’Academy dritto e storto piace sempre. Se ne va invece insalutato ospite Alexander Payne. Peccato per la fotografia del grande Phedon Papamicheal, avrebbe meritato. Ma per lo splendido ‘Nebraska’ era già una vittoria esserci.

E’ l’alba in Italia e ci vengono in mente Antonio e Tony Pisapia, Titta Di Girolamo, Geremia de’ Geremei, Giulio Andreotti, Cheyenne e infine Jep Gambardella. Ewan McGregor non è Sofia Loren, ma che bellezza tutto questo cinema.