“L’idea è tempo. Vivere nel futuro. Il soldi creano il tempo. Una volta era il contrario. Gli orologi hanno accelerato l’ascesa del capitalismo. La gente ha smesso di pensare all’eternità. Ha cominciato a concentrarsi sulle ore, ore misurabili, ore lavorative, e a usare il lavoro in modo più efficiente”

 

Non so se Cosmopolis è un film riuscito. Sicuramente non è un film sbagliato. E’ gelido come la scrittura di Don DeLillo. Non c’è nulla (o quasi) di diverso dal libro. E’ proprio nella perfetta aderenza al testo che Cronenberg si sente a suo agio. Niente da aggiungere. Solo pulsioni basiche: odori, smorfie, saliva, occhiate, tasti, schermi, parole parole e ancora parole. Una volta da Cronenberg ci si aspettava il pugno nello stomaco. Ora si fa fatica a impressionarsi, e questo non è un buon segno. E’ rimasto il fascino del suo distaccato, quasi infastidito modo di raccontare. Quella transenna che una volta si oltrepassava, quando ad esempio in “Scanners” esplodevano teste in wide screen, adesso rimane lì piantata. La naftalina dentro la quale è confinato Eric Packer (interpretato da un sufficiente Pattinson) è probabilmente la metafora delle motivazioni del regista: un mondo amorfo merita un film amorfo, incolore e afono. Una campana di vetro, imbevuta di onnipotenza.

E Cosmopolis è questo: una limo che passeggia mentre persone chiacchierano di mondi e realtà che un secondo dopo non sono più le stesse. L’unità monetaria è il topo. Sottopelle, striscia il senso di un film che era premonizione, in formato libro, già 10 anni fa. Adesso siamo nella realtà. Potrebbe succedere qualsiasi cosa fuori da quella limo. I protagonisti, e l’unità monetaria, sentitamente non se ne fregano niente.

Non è un film sbagliato, si diceva. E’ un film che può far sbadigliare chi non ha voglia di troppe chiacchiere filosofiche. E’ una pellicola, invece, che può piacere ai Cronenberghiani che del Maestro apprezzano le atmosfere e i simboli (la macchina che balla mentre chi parla se ne strafrega, la scarpa di Packer accarezzata lascivamente da Juliette Binoche, l’interessante conversazione sulla cappella Rothko). La stagione del body horror è finita da un pezzo. E siamo lontani anche da realizzazioni cerebrali e coraggiose come ‘Spider’ ed ‘Existenz’. Ma il regista sa ancora scegliere le storie da raccontare. Menzione speciale per il confronto padrone/uomo qualunque tra Pattinson e Giamatti e per l’interpretazione, quella sì autenticamente cronenberghiana, di un’allucinata Samantha Morton.