IN QUEGLI ANNI non era difficile diventare comunista soprattutto per un americano di successo, meglio se stella del cinema. Bastava essere invidiati da qualcuno, condizione che è sempre facile da trovare in ogni epoca e dunque anche in quegli anni Quaranta e Cinquanta, bastava che qualcuno cominciasse a bisbigliarlo, che qualcuno lo facesse sapere alla Huac la commissione per le attività antiamericane, insomma quella specie di tribunale che si era inventato quel paranoico di McCarthy, che aveva trasformato il paese più grande del mondo in una riserva di caccia alle streghe dove trovavano comunisti sotto ogni letto. Molti ovviamente inventati. Ma anche questa fu una delle caratteristiche del cosiddetto maccartismo.

CON DALTON TRUMBO invece ci indovinarono. Lui era veramente comunista, veramente si era iscritto al partito comunista nel ’43, ma più che altro credeva di esserlo, in realtà era un signore molto richiesto dai produttori che lo adoravano come sceneneggiatore principe di Hollywood, avendo lavorato con vari ruoli a qualcosa come 140
film, vincitore di Oscar. Amava essere ricco, comprarsi belle case, fare vela su un lago che si era fatto fare per sé, giocare a golf, attività queste che non gli impedivano di ignorare i problemi dei meno fortunati di lui. Questo fu Dalton Trumbo e ora la sua vita, non molto conosciuta in Europa, sta per esserci raccontata in un bel film di Jay Roach di prossima uscita in Italia con il titolo “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”. Tanto per dire, era di un’eleganza impeccabile con preferenza per le giacche a doppiopetto, occhiali neri come quelli che portava Arthur Miller e il viziaccio di fumarsi una sigaretta dietro l’altra, di rigore con il bocchino, e di avere sempre a portata di mano un bicchiere di whisky con ghiaccio.

CE L’AVEVA quando scriveva alla sua scrivania, una sorta di manicomio dove sopra c’era di tutto, set di penne multicolori, penne a coda con portapenne in alabastro, orribili, l’inseparabile nastro adesivo, una quantità incalcolabile di forbici che gli servivano per tagliare pezzi di sceneggiatura che voleva spostare da una parte all’altra della storia. All’epoca non c’era il computer e quelli sì che erano dei veri copia incolla. Poi elastici, cucitrici per legare fogli sparsi, tazzine di caffè vuote, radio e posacenere stracolmi.
E AVEVA tutto questo ambaradam anche quando lavorava standosene immerso nell’acqua calda della vasca da bagno, che poi era il suo modo preferito di scrivere perché lì in bagnomaria le idee gli venivano meglio. E ogni volta che si infilava dentro la vasca si organizzava così. Aveva un piano di legno che appoggiava di traverso sulla vasca da un bordo all’altro e gli serviva per scrivere con la penna, tagliare, correggere, fare tutto. Accanto alla vasca teneva accostato un tavolino che gli serviva per appoggiare le cose più svariate, la boccetta delle medicine, il telefono, la bottiglia di whisky, la solita manciata di penne e i libri. Era capace di stare a giornate intere immerso nella vasca da bagno e, come si può intuire, non è questo il tipico stile di vita di un pericoloso sovversivo comunista.

CI SIAMO dilungati nei dettagli, trascurando di dire chi era e che cosa ha fatto Dalton Trumbo. Intanto diciamo che era nato nel Colorado e che fino a trent’anni e passa aveva fatto con successo il giornalista collaborando anche a “Vanity fair” e facendo anche lo scrittore. Poi passò al cinema e quella fu la sua fortuna e la sua disgrazia, perché in poco tempo diventà ricco, famoso e invidiato. E in più anche comunista, costretto a farsi un anno di galera perché si era rifiutato di farsi interrogare da quella banda di fanatici del comitato maccartista che andava a caccia di comunisti. Dopo di che capì che doveva cambiare aria, lasciò Los Angeles e andò a vivere nel New Mexico, dove continuò a scivere sceneggiature, molto meno pagato a dire il vero ma con la stessa genialità e con successi ancora superiori ma rigorosamente sotto falso nome, procurando ad altri glorie che non si meritavano. Quali sono i suoi film? Ne citiamo alcuni alla rinfusa. I due Oscar “Vacanze romane” e “La più grande corrida”, i due colossal “Exodus” e “Spartacus”, il bellissimo “Papillon” e infine quello che diresse tre anni prima di morire, “E Johnny prese il fucile” tratto dal suo più famoso romanzo, un testo sacro del pacifismo nel quale parla di un soldato orrendamente mutilato al punto da definirsi solo un tronco di carne pensante.

«NON C’È NIENTE di nobile nel morire – si legge in una pagina -. Nemmeno quando si muore per l’onore. Da morti non servite più a niente. Non lasciatevi più ingannare. Non ascoltateli più quando vi dicono andiamo, dobbiamo combattere. Dite semplicemente mi dispiace signore ma non ho tempo per morire sono troppo occupato. Se vi dicono che siete dei vigliacchi non fateci caso perché il vostro mestiere è di vivere e non di morire. Non c’è niente più importante della vita. Non c’è niente di nobile nella morte». Un libro che fu scritto nel ’38, che parlava della prima guerra mondiale e che agitò le coscienze nella seconda e nelle guerre che vennero dopo, Vietnam incluso.