AVEVA avuto un padre buono e a suo modo voleva esserlo anche lui con i suoi figli. Aveva due famiglie, come si sa, una, la prima, con Giuditta Rissone da cui era nata Emilia e la seconda con María Mecader, da cui aveva avuto Manuel e Christian. D’accordo le due consorti, non passava anno che a Natale non facesse due Cenoni e due brindisi di Capodanno per non far mancare ai figli la presenza del padre. Per raggiungere lo scopo metteva avanti l’orologio di due ore e i due più piccoli non si accorgevano del trucco. Teneva ben divise le due famiglie, per non fare confusione, e quando i figli decisero di conoscersi si dettero appuntamento a una panchina dei Parioli e parlarono, ognuno a suo modo, di quel padre straordinario, giungendo a una condivisa conclusione e cioè che era sì buono ma anche pasticcione e portato a complicarsi inutilmente la vita.

LA VITA è strana e bizzarra. E Vittorio De Sica, se non fosse stato per suo padre Umberto, che poi ispirò il bellissimo “Umberto D.”, sarebbe stato un impiegato della Banca d’Italia, dove l’aveva raccomandato proprio lui avendoci lavorato prima di diventare agente di una compagnia di assicurazioni. Appena si presentò l’occasione per fargli fare l’attore, a quel figlio bello, che era nato attore, gli disse: «Licenziati». E per aiutarlo ad affermarsi il poveruomo, che certo non navigava nell’oro, andava ogni giorno al botteghino e comprava una decina di biglietti che regalava agli amici perché andassero ad ammirare il figliolo. Quell’ex ragazzino con cui durante la prima guerra mondiale aveva girato negli ospedali militari per intrattenere i militari, perché anche Umberto, come avrete capito, aveva una gran passione per il palcoscenico.

MA NON FURONO i figli a complicare la vita al maestro del neorealismo, all’attore, al regista, che vinse quattro Oscar e che se non è stato fatto santo subito come altri nel cinema furono beatificati ciò dipese dal fatto che non era arruolabile né dai reazionari né dai rivoluzionari, che avrebbero voluto pilotarlo. Un ritratto molto bello e acuto da questo punto di vista ne fa Giancarlo Governi in un libro da poco uscito per Bompiani con il titolo “Vittorio De Sica, un maestro chiaro e sincero”.

A COMPLICARGLI la vita semmai oppure, al contrario, a darle quel sale di cui soprattutto gli artisti hanno bisogno, com’è arcinoto, fu il gioco. Racconta María Mercader: «Quando girava con la sua compagnia si giocava tutto e mi raccontò che spesso succedeva che dovesse tornare senza una lira in terza classe». Alberto Sordi, che lo conosceva bene, ricorda il gran signore che stava al tavolo da gioco, «il giocatore a cui piaceva perdere e più perdeva più si eccitava». Con un grande come De Sica ci si può anche permettere il lusso di non parlare dei suoi film, tanto sono importanti e conosciuti e su cui è già stato detto tutto e il contrario di tutto. È invece bello scoprire l’uomo che c’era dietro quell’inconfondibile sorriso charmant con cui Vittorio guidava con mano salda le riprese.

QUANTO ha perduto al gioco? Almeno tanto quanto ha guadagnato con il lavoro. Ed Eugenio Scalfari lo ricorda quando era un bambinetto di quindici anni e suo padre dirigeva il Casinò di Sanremo. «Era diventato amico di famiglia, una volta venne a colazione e accompagnato al piano da mia madre cantò “Parlami d’amore Mariù”». Di come si debba giocare De Sica ha lasciato anche una sorta di decalogo corrispondente a regole che seguiva pedissequamente. Lo ricordano, quando lasciava il gioco dopo aver perduto spesso somme importanti, che aveva invariabilmente l’aria distaccata di chi aveva bevuto un bicchier d’acqua. Si alzava, faceva il baciamano alle signore, lasciava una lauta mancia agli addetti e usciva. Il suo decalogo era: «Né gioia né dispetto devono trasparire dai tuoi lineamenti, freddo, impassibile, distaccato. Il segreto è stare al tavolo da gioco come se non si rischiasse nulla».

SI CONSIDERAVA napoletano anche se non lo era perché amava Napoli e in modo speciale la sua assenza di confini tra sincerità e menzogna, come erano i suoi film sempre in bilico tra finzione e realtà, ma nemmeno in bilico piuttosto fatti di una doppiezza naturale, tra opportunismo e sincerità, generosità e furberia. Un’ambiguità genetica, incorreggibile e seducente. Fu il padre del neorealismo, che diventò genere semplicemente perché era capace di far recitare i sassi. Dicono che le scene strazianti dei bambini che scoppiavano in pianti a dirotto le ottenevano con un metodo semplice e risolutivo, qualcuno affibbiava ai piccoli una schiaffo, che provocava il pianto e questo si concludeva con un corale «bravo!».

UNO DEI REALISMI più efficaci fu raggiunto quando raccolse sul set di “Ieri, oggi, domani” le più imbarazzanti comparse della storia del cinema, arruolando le più assidue frequentatici di Poggioreale, come la Terremota che aveva nove figli, Vincenza che era stata in carcere 113 volte, le sue due sorelle che erano entrate solo una cinquantina di volte, la Sorrentina e la Zizzagliona, che come indicava il nomignolo si distingueva per il suo seno esageratamente prorompente. Non fu comunista piuttosto un socialista, potremmo dire, umanitario. Religioso ma anticlericale perché poco ortodosso alle regole in genere e a quelle della Chiesa in particolare. Gliela fecero pagare da morto con un funerale senza la messa. Aveva 73 anni e aveva fatto 78 film.