Nessuno meglio di Luca Ronconi seppe incarnare il famoso insegnamento del grande Eduardo De Filippo: il teatro, è gelo. Ricordo la prima intervista che gli feci, col cuore in gola, seduti nel velluto rosso della platea del Piccolo Teatro.
Asciutto, parco di parole, lineare. Tanto diverso dagli istrioni che dirigeva sul palco.
Per molto tempo mi interrogai… Un uomo di quella grandezza, un artista capace di allestimenti incommensurabili, come poteva essere così, semplicemente uomo?
Poi con gli anni capii. Il genio non si misura dalle dichiarazioni roboanti cui tanti, troppi registi ci hanno abituato, ma dalla chiarezza del pensiero.
Millimetrico, quasi matematico nella realizzazione degli spettacoli, Ronconi affidava al sentimento della scenografia il cuore e l’anima della rappresentazione. Tutto il resto non era che perfezione assoluta, e analisi del sottotesto e quindi del vero messaggio degli autori.
L’Orlando Furioso lo rivelò al mondo del teatro, “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus lo consacrarono definitivamente all’unicità. Tutte quelle ore al Lingotto di Torino, con gli spettatori itineranti persi nel tempo della rappresentazione, protagonisti, nella piazza del pubblico, dell’evento. La grandezza del mondo riletto e riscritto nella vastità del l’arena teatrale. Un monumento all’arte teatrale e alla letteratura, un capolavoro dai molti echi di fronte al quale si dispersero le polemiche (tante) sui costi. Ma può la storia essere scritta senza fondi? Certo non era artista “povero”, Ronconi. E oggi gli rendiamo grazie per quella ricchezza mai ostentata ma usata, con sapiente maturità, per tanti anni. Farci vedere e applaudire l’impossibile, il miglior investimento per il teatro italiano. Indiscutibile e memorabile, come il suo talento.