C’è un’idea che più che altro è una proiezione mentale che permette a molti di credere che i nostri eroi siano (per) sempre  giovani, belli e alternativi. E che da piccole o grandi icone indie (che siano) non dovrebbero mai cedere alle lusinghe del mainstream. Per chi continua a ragionare con questo schema i tradimenti si sprecano. E l’ultimo in ordine di tempo – per chi ragiona così – è quello di Manuel Agnelli. Sì, il leader degli Afterhours, l’agitatore della scena indie italiana che in qualche maniera ha raccolto il testimone dopo l’esperienza del Consorzio Produttori Indipendenti che è (definitivamente) imploso perdendo pezzi a destra e manca, farà il giudice nella prossima edizione di “X Factor”. Agnelli, secondo loro, è l’ultimo dei traditori proprio per questo, perché non si limita a mischiarsi col mainstream, ma  esagera, sconfinando nel nazionalpopolare più acceso. Traditore, lui come gli altri, di un’idea che sarà pure romantica ma che si è comunque fossilizzata (già) negli anni ’90. Tanto da diventare in certi casi macchietta. La più irresistibile delle serie americane è stata scritta dalla leader della band americana più indie:  si tratta di “Portlandia” e a firmarla è Carrie Brownstein, leader delle Sleater Kinney. E il merito che ha quella serie non è solo quello di aver sdoganato, in anticipo sui tempi, il concetto di hipster, ma anche quello di dimostrare come il legame, anzi il cordone ombelicale con gli anni ’90, per la generazione di quelli che oscillano tra i 30 e i 50 anni, non sia mai stato rotto. Così la serie non fa altro che mettere in evidenza in maniera grottesca e autoironica tutti i vezzi, le abitudini e, peggio ancora, i dogmi. Questi ultimi indistruttibili nel corso degli anni. Perché basta vendere un qualche migliaio di copie in più per perdere l’aura di indie e diventare un “commerciale” e far gridare tutti al tradimento (sigh). Invece Agnelli, molto prima d’altri, per quanto anche il suo ego (come quello di molti musicisti e artisti) sia piuttosto pronunciato, è stato abile a capire che la cosiddetta scena indipendente italiana avrebbe potuto avere ben altro seguito oltre a fanatici e fedelissimi. Quelli sì sono lo zoccolo duro, ma poi allargare gli ascoltatori non significa dire né “ce l’ho fatta, finalmente” né essere considerati, fin troppo frettolosamente, commerciali. Vendere più dischi – soprattutto ora che gli spazi si sono ristretti e che per trovare dei dati positivi bisogna cercarli con un lanternino miscroscopico – non significa per forza di cose stringere un patto col Diavolo. Ed è lo scopo cui ogni musicista, anche quello cosiddetto indie, punta. Tra l’altro Agnelli in “Hai paura del buio?” regalò uno dei pezzi più godibili degli Afterhours, giocando proprio su questo concetto: “Musicista contabile”.  Ora andrà a “X Factor” e  che male c’è.  Se il prossimo disco degli Afterhours sarà una cagata, non lo sarà di certo perché Agnelli è andato a “X Factor” (visto che l’ha concepito prima). Se sarà bello e all’altezza della storia degli Afterhours, il successo (tutto da verificare) di X Factor non l’avrà comunque scalfito, anzi l’avrà reso ancora di più personaggio. D’altronde ve li ricordate gli Afterhours a Sanremo? Ci andarono con un pezzo davvero buono come “Il paese è reale”. E poi nel mazzo indie Agnelli è il personaggio più televisivo che possa esserci. Oltre a essere un animale da palcoscenico. E’ anche un animale da rock’n’roll. E farsi pagare dal talent nazionalpopolare per essere liberi di dire ciò che si vuole, lavorando ovviamente più sull’addizione che sulla sottrazione, in definitiva essere personaggio eccentrico e tutt’altro che banale – e su questo Agnelli, lo ripeto, è un esperto – è ciò che più di rock’n’roll possa esistere.