Un blog che si trasforma in una lunga lista di necrologi. Anche questo (infame) 2016, anno bisestile, ci ha regalato. Non bastava David Bowie. Da ieri non c’è più anche Leonard Cohen. Ottantadue anni, l’aveva messo in conto che prima o poi sarebbe toccato anche lui. D’altronde, quando la scorsa estate la sua Marianne, musa ispiratrice di “So long Marianne”, se ne andò, disse: “ci rivedremo presto”. Quasi una sinistra profezia. Ma Leonard sapeva con lo stesso disincanto con cui ha cantato e raccontato il mondo che a ottantadue anni non si possono fare grandi progetti per il futuro. Al massimo un disco. E lui l’ha fatto: “You want it darker”. Strana, stranissima coincidenza che l’accomuna con lo stesso Bowie che qualche giorno prima di morire pubblicò “Blackstar”. Cohen ha fatto in tempo a vedere Bob Dylan vincere il premio Nobel per la letteratura, lui che, quanto a versi, non aveva nulla da invidiare al menestrello. Ma che di fronte al riconoscimento a Dylan con la solita eleganza disse: “E’ come riconoscere che l’Everest è la vetta più alta del mondo”. Un gigante. Un gigante lui che ha saputo unire vecchie e nuove generazioni. Perché se è un blog è qualcosa di (quasi) strettamente personale, bisogna anche ricordarsi la propria educazione musicale. A cominciare dalla mia. Che è iniziata partendo, ovviamente, da altre posizioni. Da altre scene musicali ma poi per forza di cose è quasi naturale imbattersi in Cohen. Fisiologico anche, pensando e ripensando ora alla sua morte, mi viene in mente il commissario Balistreri, protagonista dei romanzi noir di Roberto Costantini che cerca conforto nella musica di Cohen. Personaggio irregolare il Balistreri, con una storia di destra alle spalle, e uno sguardo disincantato sul mondo che genera nefandezze e crimini. Nessun incanto, appunto. Ma c’è sempre qualcosa cui aggrapparsi. Che sia un amore o, appunto, una canzone di Cohen per passare la nottata. Il conforto necessario e sufficiente per tirare avanti per vedere sì che le crepe sono il posto necessario dove scorgere il sole anche quando non c’è (parafrasandolo ora il poeta-songwriter appena andatosene). Ecco a quattordici anni non cominci ad ascoltare Leonard Cohen. A meno che in famiglia l’imposizione non sia quella di far girare i soliti dischi con l’effetto nostalgia di papà e mamma che ricordano i bei tempi andati di quando magari si pensava ancora che si potesse cambiare il mondo e fare la rivoluzione e che Cohen fosse la colonna sonora necessaria. Quasi come se fossimo ancora fermi, inchiodati, in una scena de “La meglio gioventù”. Ma il mondo non si può più cambiarlo, bisogna tenere quello che si ha e cercare di sopravvivere. E le rivoluzioni, ormai, le fanno le piazze vuote. Così a quattordici anni fa breccia più che altro negli ascolti la forza distruttrice, perfino un po’ adolescenziale (ripensandola ora), dei Nirvana. Kurt Cobain è il mito. Ma se Cobain nella struggente “Pennyroyal tea” cita Leonard Cohen. Uno, anche se ha quattordici anni, e non ha mai ascoltato un pezzo di Cohen, se non “The future” come colonna sonora di uno spot televisivo, qualche domanda se la fa. E magari cerca di scoprire chi sia l’uomo in questione. Poi la forza distruttrice in qualche maniera si autodistrugge. Si chiama sicuramente resa, come quella di Cobain che si uccide. Sogni spezzati, nichilismo e citazioni da diario da infilare un giorno dopo l’altro e da destinare poi alla polvere. Però succede che, col passare del tempo e degli anni, c’è bisogno di melodie, di qualcosa di più di quattro accordi sparati e diventati canzone strillata al microfono. Eccolo, Jeff Buckley. E “Hallelujah”. L’incanto vero, la bellezza. La voce di Buckley che penetra fino alle viscere e che non smette mai di infilarsi nelle proprie ordinarie giornate. Ma anche Buckley non sopravvive a questo mondo. Anche lui se ne va troppo presto. E si ha maggiore contezza che da ogni parte ci si giri, c’è Cohen. Per il quale hanno debiti di riconoscenza da trasformare in cover, sia i “grandi vecchi” come Fabrizio De André – che in quanto a parole sapeva maneggiarle bene – e Nina Simone e sia i più giovani, Buckley appunto. Loro se ne vanno, restano le loro canzoni. Cohen però resiste. Sempre con quello sguardo lì con le sue canzoni che non concede grandi speranze sul mondo reale ma riesce ugualmente a creare vie di fuga, a generare emozioni. Emozioni e vibrazioni che non sono nulla rispetto a quelle che si possono provare ascoltandolo dal vivo. Perché allora lì uno ha la sensazione reale di cosa sia la bellezza, di cosa ci faccia realmente star bene, di che cosa ci emozioni fino in qualche maniera a farci piangere. Di che cosa riesca a farci venire la pelle d’oca, pur rimanendo fermi e immobili ad ascoltarlo in una piazza estiva, una delle più belle del nostro paese (Santa Croce, Firenze). E allora sì ci si sente bene, pacificati con se stessi, magari non con il mondo, ma sì ci si sente davvero bene. E’ quell’incanto che nessuno riuscirà mai a spiegare in termini scientifici (proprio perché non è possibile) che è in grado di regalare una canzone. O addirittura, come nel caso di Cohen, una manciata di canzoni. Qualcosa che sa di vero, reale, pur essendo un’invenzione musicale o letteraria. E’ un impasto magico di ossa, carne, sangue, nervi, viscere e legamenti. E’ la vita. Ed è sempre bello perdersi dietro una canzone. E’ sempre bello provare a spalare le nuvole, come l’Adamsberg di Fred Vargas, sapendo comunque che i conti con la realtà dobbiamo comunque alla fine farli, ma intanto possiamo gioire, gridare senza nessuno che ci dica che stiamo esagerando o che stiamo solamente sbagliando. E’ questo forse il concetto più alto e reale di libertà. E che sia riuscito a darcelo Cohen con le sue canzoni, è un debito di riconoscenza con lui che non potrà mai estinguersi. So long Leonard.