A volte c’è bisogno di uno scossone. Lo rileggo ora su una vecchia lettera elettronica di otto anni fa. Lo scossone i Radiohead  l’hanno avuto. Anzi, l’ha avuto Thom Yorke. E ne è venuto fuori il loro ultimo album “A moon shaped pool”. Sia detto subito: non è tutto farina del sacco di Yorke. Basta ascoltare i primi pezzi per rendersi conto che c’è molto di John Greenwood, il chitarrista, e soprattutto del suo modo d’intendere la musica. Ma sono una band e anche se, in passato, l’ego di Yorke ha rischiato di soffocare l’essenza stessa del gruppo, non tanto l’integrità, questa volta tutti i pezzi contribuiscono a un puzzle sonoro-vocale di notevole impatto. Non è nemmeno una rivoluzione. Anche perché non si può essere condannati a essere “sempre, comunque e dovunque” rivoluzionari. Anche perché a cinquant’anni non si fanno rivoluzioni. Al massimo, con disincanto, si osserva quanto possa essere brutale il mondo reale ma senza spaventarsi. Non è per intendersi né il disco epocale “Ok computer” né tanto meno lo schiaffone in faccia, ma degno seguito dell’ultimo album dei Radiohead nello scorso secolo, “Kid A”. Però questo disco centra il cuore e le orecchie dell’ascoltatore. Non come aveva fatto “King of limbs” che sembrava, purtroppo, l’ultimo prodotto di una serialità che, tra Radiohead e progetti alternativi (Atoms for peace per esempio), rischiava di essere stucchevole, proprio perché la voce di Yorke era diventata, da tempo, ormai strumento, ma fin troppo scontato nella sua esecuzione e ripetitività. La voce di Yorke c’è sempre ed è marchio di fabbrica anche di questo disco. Ma la differenza, probabilmente, sta proprio nel trasporto con cui lui canta le canzoni, ben incasellate in una cornice sonora che rappresenta lo spirito del tempo, così significativamente frammentato. Ed ecco, arrivati allo scossone. Non c’è bisogno di sfogliare patinati né riviste di gossip per comprendere come sia cambiato il privato di Yorke con la separazione dalla moglie. E lui non fa nulla per nasconderlo in questo disco, dove canta spesso della “metà” e della sua perdita. Se c’è una canzone che più delle altre va dritta e colpisce forte, proprio per l’intensità sonora e per la voce di Yorke che s’insinua è “Present tense”. Titolo alquanto evocativo, giocata su ritmi tra bossanova e samba, e con quel “In you i’m lost” che è sicuramente molto più privato di quella denuncia pubblica che fu “yuppies networking” (assoluta preveggenza) di “Paranoid Android” da “Ok computer”. Ma che come allora rimane in testa. Quasi da ripetere come un mantra. Ecco, con un termine assai di moda ora tanto da essere fin troppo abusato, questo disco è la resilienza dei Radiohead. La capacità di andare oltre alla semplice resistenza. E questo disco così umano – molto lontano appunto dall’essere fin troppo etereo degli Atoms for Peace e anche di “Kings of limbs” – è ciò che di più bello, intenso ed empatico (soprattutto) si possa ascoltare in questo momento.