Bon Iver in concerto all'”Eaux Claires” music festival (Olycom)

 

 

Dalla mozione degli affetti a quella degli effetti. Sembrerà pure un banale gioco di parole ma nel caso del terzo disco di Bon Iver, al secolo Justin Vernon, non lo è. Partiamo dalla fine: “22, a million”, dopo ripetuti ascolti (soprattutto in auto che forse non è il luogo ideale ma in questo caso è assai funzionale), è un bel disco. A questo punto tutti i puristi o cosiddetti tali del nostro (o vostro, a seconda della presunzione) potrebbero saltare dalla sedia. Fatevene una ragione Bon Iver o meglio Justin Vernon non è più quello che spaccava la legna nei boschi del Wisconsin. Sia detto e messo per iscritto: immagine assai funzionale e diretta per rendere l’idea allora, prima ancora di ascoltare quelle canzoni, di quanto “Emma, forever ago” (il suo debutto) fosse così carico di dolore, malinconia e di quanto fosse altrettanto carezzevole all’ascolto di chi s’innamorò  perdutamente (e giustamente) di “Skinny love” o di “Flume”. Perfino Peter Gabriel non riuscì a resistervi e “coverizzò” “Flume”. Ma quel Bon Iver lì, non esiste più. Se si sperava di ritrovarlo in questo terzo disco, arrivato a cinque anni dal secondo, la speranza è risultata vana. E per fortuna che sia andata così. Certo, se avesse utilizzato lo stesso timbro (di voce) e lo stesso imprinting dei due precedenti lavori, sarebbe stato sicuramente un balsamo per le nostre anime, un punto d’appoggio per incanalare e far fluire il nostro spleen, il compagno adeguato perché poteva capire, in virtù di una sorta d’empatia di ritorno, quanto ci mancasse la nostra Emma di turno. Ma non è così, è forse meglio. Ecco perché questo disco non è una mozione degli affetti, almeno in superficie, visto quanto poi sia così stratificato. Justin non spacca più la legna, quella legna lì la vede ardere al fuoco del suo camino e ha fatto un disco dove gioca “pericoloso”, osando tantissimo, con la voce. Gli effetti, i riverberi, l’ormai celebre software “Messina” (di cui ha parlato anche il New Yorker che ha dedicato un poderoso pezzo sulla trasformazione del canto di Bon Iver, da noi non sarebbe mai successo) per trasformare quella voce che suona a tratti stridente, a tratti aliena. Ma riesce a rendere l’idea di quale mondo (reale) sia passato davanti agli occhi di Vernon. E come lui sia riuscito a raccontarlo bene, compiutamente, come un romanzo in musica con questo “22, a million”. Non cercate Emma in questo disco, non la troverete, e non cercate nemmeno il Bon Iver del passato (e quei passaggi chitarra-voce che si tramutavano in caldi abbracci). Ma se si ascolta questo disco, anche nel frenetico via vai quotidiano tra un semaforo e uno stop per un passaggio pedonale, in auto appunto, canzone dopo canzone, ascolto dopo riascolto, vi conquisterà. Perché anche da questo disco che può sembrare appunto sfoggio di tecnica e perfino d’elettronica (col recupero di qualche pezzetto di Sharon Van Etten e perfino di “By this river” di Brian Eno, quella sì della sequenza commovente de “La stanza del figlio” di Nanni Moretti) viene comunque fuori un’anima. Non è disco altero e nemmeno glaciale. Tutt’altro. Basta solo abituarsi. E provare a chiudere col passato. Come quando qualsiasi tipo di relazione finisce ed è arrivato il momento di non pensarci più. Con Emma o senza Emma.