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Firenze, 14 ottobre 2017 – Nella prima raccolta poetica di Dario Bellezza Invettive e licenze c’è un verso che suona: “Sciagurato solo di me so parlare”. Il verso è elevabile a capsula interpretativa di una condizione psicologica di alienante diversità che quasi inevitabilmente si impone a contraddistinguere le scelte di fondo di un modo di far poesia, nonché, per converso, a disautenticarlo nella sostanza stessa ogniqualvolta su quelle ragioni prendano il sopravvento volontarismi di reazione e, per così dire, di affrancamento liberatorio.

Che la limitatezza del campo poetabile e prima ancora vivibile risulti dolorosamente avvertita, sta ad attestarlo la maledizione sottesa ad apertura di verso. Di qui la tentazione irresistibile alla trasgressione, al proposito ampliante a sfondo morale e comunitario, allo sconfinamento autoimposto in senso programmatico e progettuale.

Questo in Dario Bellezza. Un verso di Sandro Penna, invece, nel riproporre da una prospettiva del tutto differente lo stesso problema o tema di fondo che dir si voglia, può così esclamare: “Sempre fanciulli nelle mie poesie!”, e giustificarsi con disinvolta pacatezza, a nome e in nome dell’io: “Ma io non so parlare d’altre cose”, per poi spostare gradatamente l’accento sui registri dell’aereo calembour infantilmente risentito e lucidamente disarmato, perfino nella battuta che taglia corto con ogni possibile replica e ogni possibile interlocutore: “Le altre cose son tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere Pie”.

A lettura del testo ricomposta ed ultimata, a prevalere nel riconoscimento e nell’affermazione di analoghe riduzioni ed impossibilità non è né la spavalda, fiera e soddisfatta contentezza di chi l’ha fatta franca, né tantomeno l’angoscia di chi prima si indigna e poi cede immancabilmente all’autocommiserazione e alla tristezza: è il senso di “sospeso”, piuttosto, così tipico dei timbri penniani da far perfino illusoriamente  immaginare stampati, anche quando non lo sono, quei puntini che spesso suggellano, lasciandoli in realtà apertissimi, tanti suoi componimenti.

Si tratta di un effetto sapientemete preparato che Penna si adopera di provocare nella sensibilità del lettore mediante sfumature intonazionali e ambiguità metrico-espressive minime ma sempre folgoranti, pronte a “fare ambiente” in ognuna delle sue rastremate e suggestive scritture, a conferire loro la cifra di un’assoluta, radiosa riconoscibilità: partiture calcolatissime cui corrisponde sul piano dei significati – perfettamente in equilibrio continuo tra senso e suono, miracolo e verità – una trasmissibile e compartecipata visione del mondo.

Marco Marchi

Era il paese della luce d’oro

Era il paese della luce d’oro.
La sera ogni persona, quasi in sogno
abbandonarsi pareva. E mi pareva
– la luce d’oro era finita – in sogno
di te cadere, mio confuso amore.

Sandro Penna

(da Confuso sogno, Garzanti 1980)

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