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Firenze, 7 novembre 2017 – Pascoli: una pietra miliare della nostra storia letteraria e, insieme, un caposaldo della modernitàPasolini diceva che tutto il nostro Novecento migliore derivava da lui: da quello moralistico dei vociani a quello di cui la sua stessa poesia, a partire dagli anni Quaranta e ben prima delle Ceneri di Gramsci, era stata rappresentante.

Certo è che al capitolo della lirica pascoliana dovrà essere ascritta una partecipazione di rilievo alle vicende del simbolismo. Un simbolismo particolare, quello del poeta di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, tutto interiormente in ascolto e in larga misura inconsapevole, laddove quello del suo coevo compagno di strada Gabriele d’Annunzio si muoveva, tra estroversione ed esibizione, negli spazi dell’aggiornamento su scala europea e della creazione intellettualmente nutrita di miti all’insegna dell’eroismo e del primato.

Partecipazioni divaricate, ma culturalmente efficienti e interattive, anche sul piano di una condivisa, ingente lezione linguistica svolta. Sta di fatto che in Giovanni Pascoli i traumi di tipo familiare e sociale subiti e biograficamente certificabili inaugurano una sorta di grande ricongiungimento al reale e ai problematici destini dell’uomo che in quel reale si trova ad esistere. La poesia si fa modernamente mistero: mistero della vita captato ed inscenato dalle zone di provenienza più remote ed impervie dell’inconscio, dove il «fanciullino» prende forma e con il bagaglio delle sue qualità si afferma; mistero della vita fittamente, indistricabilmente intrecciato con quello della morte, un tutt’uno con il grande tema  del «nido» che alimenta la regressiva poesia di Pascoli.

Con Pascoli il poeta cessa di essere il pedagogo, il tribuno e il predicatore a sfondo sociale, per essere al contrario – davvero simbolisticamente, tra i confini della sua solitudine e oltre ogni deliberato programma aggiunto – figura di colui che cerca la verità di se stesso nell’universo. Ed è così ce l’antieroica, minuta e quotidiana professione di debolezza di Pascoli e il senso di instabilità e smarrimento che dalla sua poesia esatta e vertiginosa promana si fanno apertura al moderno:  garanzia costante di attualità, di capacità di parlare agli uomini di ogni tempo.

Marco Marchi

Novembre

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
                                          senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
                                           sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
                                           fredda, dei morti.

Giovanni Pascoli

(da Myricae)

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