31 ottobre 2017 – Bellissimi per davvero i risultati questa gara ottobrina! Al primo posto il post Un gioiello di Carlo Betocchi che qui si ripubblica, con una poesia davvero strepitosa come Il dormente e con i vostri commenti che un testo così ispirato e suggestivo ha saputo provocare. Che un poeta sottovalutato e invece di primo piano come Carlo Betocchi abbia suscitato tanto interesse tra voi è un dato che rende felici, soprattutto adesso, nell’imminenza del conferimento del premio in suo onore che sarà effettuato come ogni anno a Firenze nella magnifica cornice della Sala Luca Giordano di Palazzo Medici Riccardi (il nome del vincitore 2017 a breve, la premiazione sabato 11 novembre).

Argento ad un altro poeta amatissimo dal nostro blog, il russo Sergej Esenin, con Esenin e l’uomo nero. Bronzo equamente spartito, secondo l’apprezzamento alla pari riscosso, ad altri due beniamini internazionali del Parnaso novecentesco a tutti noi molto cari: due fuoriclasse della poesia che rispondono ai nomi di Rainer Maria Rilke e Sylvia Plath, classificatisi per via di post incentrati su testi notevolissimi con Rilke. L’ottava elegiaLa lettera d’amore di Sylvia Plath.

Tra i vostri commenti del mese dedicati a Betocchi selezioniamo quelli di gicomotrinci, Matteo Mazzone e tristan51. Rispettivamente: “La veglia, il sonno, il corpo: tre attori della poesia di Betocchi, del suo dantesco viaggio nella natura naturante, nel folto di una creaturalità rivissuta in parola; questo fraseggio inconfondibile, che dalla fervida plasticità metrica di Pascoli, irrompe con nuova freschezza in queste strofe miracolose de ‘Il dormente’, ci dona il risveglio di una poesia antica e nuova: una lingua della poesia che si aprirà, in seguito, in modo sempre più perspicuo, ramificato, vertiginoso, al potente dettato del realismo del simbolo, dopo questo vivo, ventoso realismo della realtà tipico del primo Betocchi. Un padre della poesia: ruvido e dolce, accogliente ed aspro, di fanciullo eterno”; “Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso la quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di ‘oggettività d’ammirazione’, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta della semplicità stilistica, riecheggiante ‑ almeno in questo testo ‑ una cadenza pascoliana: come i rapidi e semplici quinari conclusivi di ciascuna strofa. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza”; “Nonostante le magie incantatorie efficienti nel bellissimo testo proposto, già si annuncia in ‘Altre poesie’, con l’abbandono di una giovinezza rapita, integralmente primitivistca e affascinata, quella che il poeta definisce ‘la necessità di verificare la concretezza del suo amore nella concretezza degli oggetti’. La prospettiva, se non arida­mente scientifica, sarà quella di una mistica perfezionante dell’amore di Dio che si apre al mondo, come ad esempio accade in una scrittrice formidabile ‘ansietata’ d’amore come Santa Caterina da Siena: l’efficacia dell’amore quale inveramento ed autenticazione di ogni grazia ricevuta. Ma ‘mettersi nel cuo­re delle cose’ oltre che dei propri fratelli in Cristo sarà anche, per il francescano e creaturale Betocchi, compiere il necessario approfondimento conoscitivo di tutta la realtà che sta attorno a lui, frutto tra frutti di una paternità straordinaria, riconfermata per il momento ta­le, amorosa, perché creatrice”.

Buone riletture e buoni ascolti, e a domani con un nuovo mese di “Notizie di poesia“!

Marco Marchi

Un gioiello di Carlo Betocchi

VEDI I VIDEO “Il dormente” , “Le rondini” , “Io un’alba guardai il cielo e vidi” “Un dolce pomeriggio d’inverno” , Intervista , “Un passo, un altro passo” ,

VISITA IL SITO Centro Studi e Ricerche Carlo Betocchi

Firenze, 2 ottobre 2017 ‑ Se poetica­mente i maestri del vedere di Carlo Betocchi fin dall’inizio sono i poeti – da Rimbaud a Campana – religiosamente l’anomalia della celebrata e a suo modo emblematica Allegrezza dei poveri a Tegoleto del libro d’esordio Realtà vince il sogno rappresenta un co­rollario da non sottovalutare di quel vedere, di quel cantare una fusione uomo-natura tipica del contadino, di quell’affidarsi a una poesia della terra e delle metafore agricole (Dai campi), a un’attenzione religiosa e già liturgica al ritmo delle stagioni e a quello della luce lungo l’arco del giorno (Io un’alba guardai il cielo, Al giorno).

Ne emerge una figura di Dio legata alle meraviglie del creato. In assenza del volo definitivo l’«ala ansiosa» della canzone, il suo slancio inesausto di rapporti, trova là la sua patria elettiva: là è nata, e là vuol tornare, struggendosi per un borgo del Si­gnore, un imprevisto umbilicus mundi in cui la dolcezza si eman­cipa da conforti di «fame e stenti», da crudeltà di pietre rove­sciate pronte a ripagare, in termini propriamente naturali e già imbevuti di luce, con «ginestre e sole».

Una scandita liturgia delle ore, dei giorni, delle stagioni; un incipiente, rinnovato «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari». Tegoleto come elogio della povertà e del fare: laggiù, sotto gli occhi del Signo­re, anche una Signora con la esse maiuscola, la luna, svolge il suo lavoro, notte dopo notte. Nessuna protesta: un’accettazione gioiosa e letificante, remissiva: «indi­gnatio non facit versus».

Ci ricordiamo, con il Russell di Misticismo e logica, di Plato­ne, il cui pensiero, com’è noto, è portatore di impulsi contrad­dittori. L’obiezione di Parmenide al giovane Socrate intento a spiegare che c’è un’idea del bene non esita a rivalutare, nella dinamica del pensiero che si costruisce, cose come il fango e l’im­mondizia: «le cose più umili», testualmente. Questo difficile con­siglio inclusivo, secondo Russell, rivelerebbe un temperamento scientifico autentico: quel fango, tuttavia, è lo stesso che imbratta anche gli occhi da colombella di Santa Teresa d’Avila, quando essa è distolta dal fulgore divino che l’acceca e guarda se stessa. Se la disposizione mistica del primo Betocchi potesse disinvoltamente apparire in sospetto di wishful thinking, di un’impulsiva incarnazio­ne anticipata di desideri e niente più, vari fattori funzioneranno presto da correttivi.

Alcuni di essi, in verità, risultano già segretamente effi­cienti, scientificamente a loro modo già predisposti quali ostacoli a un facile matrimonio dell’ideale con il mondo. Già il dubbio iniziatico sul conoscere è con­traddetto dal sentire allargato di una comunità-campione di lavoratori, poco importa se di sapore strapaesano, mitizza­ti per via di letteratura come gli scambi amorosi not­turni tra upupa e upupo; già il «tetto / antico» in Di uno stagno campestre o i «poveri tetti» di Vetri ‑ arcaico e povero di nuovo insieme ‑ segnano la ritornante linea di confine tra ciò che ci racchiude e ciò che è altro da noi, ciò che tende al cielo e ciò che rimane a terra.

È poco, ed è molto. Sta di fatto che sotto quei tetti, e dal confronto con altre comunità-campione, l’en plein air di Realtà vince il sogno risulterà presto contraddetto. Precocemente Betocchi inaugura la sua identità acutamente fissata da Andrea Zanzotto tra «poeta dei tetti, delle tegole» e «poeta del cielo», ma quasi subito l’articola e l’arricchisce, facendosi portavoce di una poesia che, esemplata sulla comportamentistica cangiante del divino e duttilmente fedele alle possibilità registrative dei propri slanci, è insieme attaccata alle cose e «metafora di ogni diversità» rispetto ad esse. Il dominio dell’aereo con le sue immagini-metafore sembra anzi acquistare più pregnanza proprio a partire da quel confine fisico che in Betocchi si stabilizzerà ricorrente, freno a troppo facili, prematuri e gratuiti voli fantastici e speculativi. Ne deriveranno, semmai, immagini di verità, nonché idee di Dio, sufficientemente fisiche (Dai tetti, Canto serale).

In Altre poesie, tuttavia, il libro del 1939 da cui la stupenda lirica Il dormente è tratta,  il «quotidiano, piccolo bisogno» prevede già, albale come la visione che siglava l’apertura del primo libro, l’invocazione del soccorso divino: invocazione domestica, da chiuse stanze, dove un uomo solo è seguito adesso da occhi muti e il suo canto «non ha suono». «E forse l’albe infantili mie ‑ conclude Betocchi ‑ volgono / verso quest’alba più grande e severa / d’un’altra gioventù, non piena d’angeli, / umana, e sacra ai dolori di tanti / che come me, sulla terra, hanno sera / prima che cali il giorno, o come vogliono i Tuoi decreti, Provvidenza vera» (Alla do­lorosa Provvidenza).  Ma anche così il volo è spiccato: salvaguardato, al riparo dalle drammatiche complicazioni del discorso che lo renderanno in futuro, con il procedere degli anni, inaspettatamente più difficoltoso e controverso: la verità del­la provvidenza rin­tracciata per il momento nella sua stessa dolorosità. 

Marco Marchi

Il dormente

Io mi destai con un profondo
ricordo del mio sonno.
Dalla mia veglia guardavo
il mio corpo dormiente,
era giorno, era un chiaro
giorno silente.

Quando le sere d’estate
esalan profumate
tenebre sul fiume, un uomo
giace sopra la riva
addormentato dal suono
dell’onda viva.

Passano sopra il suo viso
l’ombre del paradiso
lunare, tra i flessuosi
salici e il lieve vento;
celano gridi amorosi
l’erbe d’argento.

Vento e prati fluttuando
muoiono con un blando
fiotto e là, presso il suo corpo,
come a un’isola viva
da un mare languido e smorto
il flutto arriva.

Presso il suo corpo si rompe
quell’ineffabil fonte;
e il suo respiro leggero
di creatura che dorme
scioglie nell’etereo cielo
azzurre forme.

Carlo Betocchi

(da Altre poesie, 1939, in Tutte le poesie)

I VOSTRI COMMENTI

m
Leggendo Betocchi si capisce ancora meglio come “poeta” vero sia colui che sente e vede più degli altri. Insomma, per riprendere una formula usata da Marco Marchi nello scritto introduttivo, un “maestro del vedere”: del vedere, del sentire e naturalmente del dire.

Tania Montini
Questa splendida lirica del Betocchi è quasi un’espressione visionaria della lotta cosmica tra vita e morte. È costante la presenza simbolica delle tenebre come pace eterna e logica conclusione del cammino dell’uomo, sentita dal Poeta con soave naturalezza. L’ombra del Betocchi non si disgiunge mai dalla sua innata radiosita’.

tristan51
Nonostante le magie incantatorie efficienti nel bellissimo testo proposto, già si annuncia in “Altre poesie”, con l’abbandono di una giovinezza rapita, integralmente primitivistca e affascinata, quella che il poeta definisce “la necessità di verificare la concretezza del suo amore nella concretezza degli oggetti”. La prospettiva, se non arida­mente scientifica, sarà quella di una mistica perfezionante dell’amore di Dio che si apre al mondo, come ad esempio accade in una scrittrice formidabile “ansietata” d’amore come Santa Caterina da Siena: l’efficacia dell’amore quale inveramento ed autenticazione di ogni grazia ricevuta. Ma “mettersi nel cuo­re delle cose” oltre che dei propri fratelli in Cristo sarà anche, per il francescano e creaturale Betocchi, compiere il necessario approfondimento conoscitivo di tutta la realtà che sta attorno a lui, frutto tra frutti di una paternità straordinaria, riconfermata per il momento ta­le, amorosa, perché creatrice.

La strofa iniziale ci porta nel clou della tematica betocchiana: il sonno e la veglia, il paradiso notturno della calma e del riposo, misterioso come la luna, il tema del vedere, di origine poetica orfica,… e il suo risveglio è illuminato dalla luce, il “chiaro giorno silente”; la situazione è simile a quella dello sconosciuto che nella sera estiva tra i profumi e i suoni vivi dell’onda si addormenta sognante in ombra del paradiso, in pace, dimentico i sé. La natura –flessuosi salici, lieve vento, erbe d’argento-lo fa fluttuare nel paradiso ”lunare”: sonno e veglia si fondono, il respiro leggero dell’addormentato sa accompagnarsi alle eterne azzurre forme. Una nuova alba, nella quale può dire… “e intendo che vita/è questa, e profondissima/luce irraggio sotto i cieli/colmi di pietà infinita”. Realtà che sa vincere il sogno: un tema fondamentale della poesia di Betocchi.

Antonella Bottari
Echi ermetici insieme a dinamiche pascoliane (anche il De Robertis parlò di Pascoli a proposito di Betocchi), son presenti in questa lettura, estratta da “Altre poesie ” del 1939, “Il dormente”. Questa magnifica lirica, direi di gusto elegiaco, mette in contemporaneità temporale la memoria personale di un sonno vissuto lungo un fiumiciattolo (forse un rimando al fiumiciattolo della vita di verghiana memoria?) con la medesima esperienza vista dall’alto, da altri ignoti occhi. Dunque non sappiamo se egli fosse al momento sveglio o vegliante. Il poeta, insomma, vede se stesso addormentato dall’esterno, attorniato, avviluppato dalla vita cosmica nella quale infine si sfanno le sue forme corporee. Ma è la Luna, quasi onnipresente in quanto propaggine divina, ad ancorare, tramite la sua luce, la visione del poeta che sente proprie le tensioni delle attese e degli eventi. Appena sfiorato dall’ermetismo, secondo il critico Titta Rosa, egli si incanta al richiamo che proviene dalle voci segrete della natura che gli pervengono da una assorta contemplazione interiore; ma è pur vero che il rapporto di Betocchi con la fede non è sempre troppo distante dalle ansie ermetiche, ossia dalla irrisolta maniera di problematizzare la relazione tra l’esistenza puramente fisica della presenza umana e la metafisica attraverso le sue entità e simbologie. Sarà Luzi, con la sua lucida analisi sulla religiosità di Betocchi a darne “testimonianza” con la sua dedica al Nostro, quando giunto quasi al compimento della sua esistenza, scrive: “…Abiura io?chi può dirlo/ qual è il giusto compimento di una fede… Dunque i versi dell’amico Luzi tentarono, mi sembrerebbe, di giustificare i dubbi religiosi che verosimilmente colsero il Nostro sugli ultimi gradini prima dell’arrivo, il sospirato arrivo celeste. D’altronde, il rapporto di Betocchi con la fede non è sempre troppo distante dalle ansie ermetiche, o metafisiche . “Anni di dubbi, di sofferenza e di solitudine, egli arrivò a temere di averla persa, la fede, quella sua gioiosa e spavalda comunione teologale con tutte le creature” (cfr. Leandro Piantini). E concludo citando ancora de Robertis: per definire in toto la poetica betocchiana, “È un idillio scontento con solo le apparenze della felicità”

Antonietta Puri
Trovo molto bella questa poesia di Betocchi che è, insieme, la narrazione del ricordo di un sogno e un sogno lucido; è un’esperienza fuori dal corpo, durante la quale, mentre egli dorme sulle prode di un torrente, circondato e vegliato dalla bellezza e dal mistero della natura, sogna se stesso che dall’alto si osserva dormire , con uno sguardo distaccato quasi fosse estraneo a se stesso… E in quel momento non si comprende più chi sia il soggetto di questa esperienza metafisica: se il dormiente o il suo alter ego, poiché entrambi si fondono nel cosmo e come nell’illuminazione mistica, si sentono parte del tutto. E’ l’esperienza del Divino che si palesa.

Chiara Scidone
Il poeta guarda il suo stesso corpo mentre dorme. Un ricordo personale di un sonnellino lungo un fiume e allo stesso tempo la stessa esperienza vista da fuori, da altri occhi. Il sogno, tema presente anche nella sua prima raccolta di poesie, che si contrappone alla vita reale. Anche in questa poesia, come in molte di Carlo Betocchi possiamo notare la presenza di significati religiosi e la presenza delle tenebre come pace eterna.

Maria Antonietta Rauti
Non si può leggere Betocchi, senza creare l’atmosfera giusta… Almeno cercare di immedesimarsi in quei profondi pensieri che rapiscono l’anima. È una poesia ricercata tra l’essere che vive e l’ispirazione di una perfezione celestiale, divina.

Isola Difederigo
Sogno o realtà, la poesia è per Betocchi un dono della vista, l’immersione visiva in una natura naturans o creato creante che trova da sé le parole. È evidente fin dal principio, molto prima della “abiura”, che il cristianesimo pauperistico di Betocchi presenta un aspetto eterodosso, in quel fermamente pensare e amare la creatura, averne a cuore la felicità nell’ordine naturale e cosmico, più del suo Creatore.

Marco Capecchi
Quasi “realismo magico” e onirico. Poesia stupenda. Mi pare che Betocchi attenda un risarcimento che gli è dovuto.

giacomotrinci
La veglia, il sonno, il corpo: tre attori della poesia di Betocchi, del suo dantesco viaggio nella natura naturante, nel folto di una creaturalità rivissuta in parola; questo fraseggio inconfondibile, che dalla fervida plasticità metrica di Pascoli, irrompe con nuova freschezza in queste strofe miracolose de “Il dormente”, ci dona il risveglio di una poesia antica e nuova: una lingua della poesia che si aprirà, in seguito, in modo sempre più perspicuo, ramificato, vertiginoso, al potente dettato del realismo del simbolo, dopo questo vivo, ventoso realismo della realtà tipico del primo Betocchi. Un padre della poesia: ruvido e dolce, accogliente ed aspro, di fanciullo eterno.

framo
Testimonianza di un viaggio astrale la veglia borderline del poeta: quasi una sorta di OBE (Out of Body Esperience) o di NDE (Near Death Esperience) che, da visioni immanenti, tangibili e concrete, per trasfigurazione semicosciente, distilla e restituisce onde sonore di impalpabile, incorporea ma viva levità. Un grande Betocchi.

Matteo Mazzone
Una delle più importanti personalità del panorama letterario internazionale, verso la quali si accende da parte del lettore colto quel concetto di “oggettività d’ammirazione”, in quanto personificatore di un’arte unanime, globale, per tutti. Betocchi poeta della semplicità stilistica, riecheggiante – almeno in questo testo – una cadenza pascoliana: come i rapidi e semplici quinari conclusivi di ciascuna strofa. Semplicità dello stile dunque, elaborata e connaturata con una profonda conoscenza letteraria, dove i modelli precedenti e contemporanei si misurano, si fiancheggiano, si abbracciano. Al poeta dobbiamo la riscoperta della poesia come movimento in lento, in adagio, delle sensazioni umane, dei sentimenti etici e morali. Sulla scia di Sbarbaro, di Rebora, poi di Penna, Betocchi poco conosciuto, poco letto, (ma forse come i citati) deve conoscere obbligatoriamente una rivalutazione metaletteraria: il riconoscimento di un modello di dolcezza, un maestro di semplicità e delicatezza.

Ilaria 77
Come non lasciarsi cullare dalle parole di Betocchi? Sembra quasi di vederlo, quest’uomo addormentato, fuso con la natura circostante, le membra distese come erba, il respiro come aria, in una comunione perfetta con il creato. Sicuramente un grande autore, purtroppo non sufficientemente conosciuto, delicato, quasi pascoliano, da scoprire come una sorpresa gradita.

Sabina C.
La concretezza del corpo panicamente assorbita dalla ‘vita esterna’, inserita in un’atmosfera rarefatta e indistinta che è luce, pace, serenità… molto bella!

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