Firenze, 29 novembre 2017 – Come altre volte è accaduto, anche il mese di novembre delle nostre ‘Notizie’ prevede sul gradino più alto del podio un ex-aequo. Al risultato largamente prevedibile quanto giusto riscosso dal post pasolinano Anniversario Pasolini 1975-2017 fa infatti riscontro quello meno atteso ma altrettanto gradito e condivisibile del post tozzian-baudelairiano Tozzi e Baudelaire (lo riproporremo e festeggeremo domani, anch’esso con i vostri commenti).

Vince Pasolini, e vince con una poesia emblematica della sua vena civile bilanciata tra “passione e ideologia” che proprio nelle Ceneri di Gramsci, il libro cui il poemetto premiato dà il titolo, trionfa, trovando in esso l’espressione più felice e poematicamente risolta dell’intero itinerario poetico pasoliniano. E che lettura d’autore, quella di Pasolini! Rivelatrice, come sempre, del laboratorio da cui un testo nasce e prende forma, ed estremamente suggestiva.

Un po’ distanziato dai vincitori ma forte di molti consensi e commenti ricevuti, un drappello di poeti tutti italiani cronologicamente seriati dal primo Novecento ai nostri giorni: e tutti, rinunciando per una volta ad argento e bronzo, indistintamente segnaliamo, coingratulandoci: Il quadro e il ringraziamento. Attilio Bertolucci , Premio Betocchi a Patrizia Cavalli , Buon compleanno ad Arturo Loria e Fine della Grande Guerra (con una poesia di Rebora).

Tra i vostri commenti su Pasolini di novembre c’è l’imbarazzo della scelta, a volerne indicare come di consueto qualcuno facendo torto ad altri. Selezioniamo quelli di Antonietta Puri, Maria Grazia Ferraris e Antonella Bottari. Rispettivamente: “E’ vero che leggendo “Le ceneri di Gramsci” – come anche Calvino fa notare (insieme ad una ‘bravura tecnica che fa sbalordire’) – subito il pensiero va a Foscolo, ai Sepolcri, e fatalmente va anche a quel giorno dei morti di tanti anni fa, a quella mattina in cui , giovanissimi, colti al risveglio dalla drammatica notizia della morte di Pasolini, ci incamminavamo lungo un percorso di cupo stupore, di meste riflessioni e di domande senza risposte, in un autunno grigio, simile, per l’ impurità della sua aria a quel maggio che maggio non era più…E in questo poema Pasolini c’è tutto, con la sua passione smisurata, la sua brama di vivere, di esprimersi, di essere ascoltato e compreso; c’è soprattutto quella contraddizione che lo ha connotato negli ultimi suoi anni, di voler vivere un ‘comunismo’ sui generis, fatto di partecipazione alla vita (almeno apparentemente) autentica e vitale del proletariato, fuori da ogni ideologia e di ogni discorso su lotta e coscienza di classe, perché egli osservava la vita dal poeta e l’artista che era, contro la lucida razionalità di Gramsci, politico e ideologo del comunismo, in cui aveva creduto fermamente e con lui dialoga presso la  sua tomba, un po’ dandogli ragione e un po’ dandogli torto, sulle vicende di una bella, ma svilita Italia che mai, tanto meno oggi, fu ed è capace di una vera ‘riscossa’ da un asservimento politico incancrenito e incronichito. Alla fine, Pasolini deve prendere malinconicamente atto della ‘non bellezza’ di quel mondo proletario che aveva tanto amato ma, già ai suoi tempi, ‘viziato’ dal consumismo. Pasolini ci è mancato e ci manca tanto, ma proprio di questi tempi in cui le sue ‘profezie’ si sono fatte realtà, egli è più vivo che mai, molto di più di quando né il potere politico, né il favore popolare erano propriamente dalla sua parte.”; “L’opera è vasta, articolata e non facile da sondare, anche se si sono spesi su di essa fiumi di inchiostro. Il realismo di Pasolini si intreccia col mistero della poesia: Pasolini non ha mai patteggiato su modi e condizioni del suo impegno estetico, ha inventato un modo di far poesia – qui di poesia che è in caccia della prosa –, facendosi tutt’uno con le sue responsabilità di poeta, col suo impegno a favore della vita rappresentata nelle sue urgenze radicali, quelle delle plebi rurali inurbate, e proletarie: un’umanità espulsa dall’Eden e forse impazzita, ma ancora saggia per diritto di nascita se non per una cultura mai acquisita. ‘Le ceneri di Gramsci’: poesia di passione e in un certo senso sepolcrale in terzine neodantesche e neopascoliane. Il cimitero degli Inglesi, dove è sepolto Gramsci è un buio giardino, luogo estraneo, silenzioso e infecondo. Gramsci è un ‘morto disadorno’ la cui carica ideologica è solo potenzialmente rivoluzionaria, non già un ‘forte’, ma ‘umile fratello’. E questa parola, per la particolare biografia di Pasolini, ha un inevitabile rintocco tragico: ‘…tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci, / e tutto ciò che fu vita ti duole come una ferita che si riapre e dà la morte'”; “Il sonno della coscienza italiana è protagonista nei versi proposti oggi, e raggiunge il suo culmine nell’oscillazione tra due estremi, nell’esposizione pasoliniana: con e contro Gramsci, con e contro la classe operaia, con e contro l’ideologia marxista. L’intellettuale è dentro il mondo, ma si sente completamente tagliato fuori da ogni cosa, e guarda tutto ciò che si erge dinnanzi ai suoi occhi con lucido distacco, prende coscienza del proprio rifiuto, e al contempo della sua compassione per i vili e del suo amore verso gli ultimi.Credo che il linguaggio di Pasolini, unico ed affascinante sai dovuto all’equazione: originalità+diversità=bellezza. La bellezza del poemetto è dovuta in parte sia alla lexis che alle figure retoriche, ma anche al tema trattato e cioè la dissociazione dei giovani (per ignoranza di lettura) dalle idee di Gramsci e alla novità del poemetto. Il raccoglimento diventa per il poeta un momento di preghiera e comune sofferenza, e nel dolore va cercando un’altrettanta imperitura purezza. Forte del suo contenuto, può essere considerata una grandissima opera d’impegno civile, attraverso cui il poeta ha voluto rappresentare, in tutta la loro drammaticità, le contraddizioni di un’epoca, dove il presunto”populismo” delle precedenti raccolte in versi, si fa carico di un’inequivocabile potenza ideologica, il cui simbolo è senz’altro il nome di Gramsci, dietro cui Pasolini ha cercato d’individuare la portata rivoluzionaria dell’ideologia marxista. Il divario che separa l’intellettuale borghese e il popolo si sublima nella creazione estetica, ovvero nella poesia”.

Ma belli, fra tanta dovizia di acute osservazioni e caldi apprezzamenti, anche le note a margine di Elisabetta Biondi della Sdriscia e Duccio Mugnai.

A domani, per rendere onore al vincitore alla pari Federigo Tozzi in coppia con Charles Baudelaire!

Marco Marchi

Anniversario Pasolini 1975-2017

VEDI I VIDEO Pier Paolo Pasolini legge “Le ceneri di Gramsci” , L’inizio di “Accattone” , Il finale di “Mamma Roma” , “Io sono una forza del passato” (da “La ricotta”) , “Meditazione orale” , L’orazione funebre di Alberto Moravia

Firenze, 2 novembre 2017 – Ricordando che il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini fu barbaramente ucciso al Lido di Ostia.

La testimonianza poetica di Pasolini si origina da una chiamata di tipo squisitamente linguistico: una chiamata legata a una parola dialettale come “rosada”, rugiada, sentita risuonare in Friuli in un mattino inondato di sole dell’estate del 1941; una chiamata suggestiva quanto cogente, religiosamente folgorante come nelle conversioni, destinata a siglare l’intera, complessa vicenda artistica e intellettuale pasoliniana.

Pasolini sarà da quel giorno, prima di tutto, un poeta, e la poesia, in tutte le sue praticabili “forme”, sarà l’elemento fondante e unificante della sua presenza nel mondo, del suo messaggio. Un’obbedienza fattasi immediatamente scrittura (“E scrissi subito dei versi”, come testimonierà Pasolini stesso, riferendosi alle Poesie a Casarsa), che presto, per gradi ma con crescente sicurezza, implicherà per lui l’apertura adulta dell’“io” agli altri e al confronto con la Storia: la Storia con le sue ragioni e le sue assurdità, le sue contraddizioni e le sue violenze, le sue ingiustizie e le sue possibilità di riscatto.

Dalla Scoperta di Marx che suggella L’usignolo della Chiesa Cattolica alle Ceneri di Gramsci, dalle raccolte degli anni Sessanta La religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa a Trasumanar e organizzar e La nuova gioventù, la produzione in versi di Pasolini registrerà, tra partecipazione collettiva e difesa della persona, implicazioni costanti e a ben vedere sempre più drammaticamente efficienti. Mai dismessa non solo come “vocazione” ma anche come preciso genere letterario, la poesia rivendicherà nel corso degli anni, tra “passione” e “ideologia” e all’insegna di un inesausto sperimentalismo, modalità comportamentistiche, prospettive d’intervento e fiducie ad essa ascrivibili sempre diverse.

Pasolini, com’è noto, aveva a suo tempo individuato nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle Ceneri di Gramsci la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscilla pericolosamente: quel tentato equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità, sino a fare di se stessa, di se stessa com’era un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.

Basti pensare al Pasolini che autoterapeuticamente scrive, tra canzoniere d’amore e poesia perduta come l’amato dedicatario Ninetto Davoli, L’hobby del sonetto, ridisegnando nel segreto, in parallelo alle poesie civili confluite in Trasumanar e organizzar, una zona di libertà da quel dovere sociale così pressantemente sentito: un dovere che, falliti i suoi allargati obiettivi d’amore umanamente fondanti e qualificanti, ha analogamente deluso, rendendo impronunciabile la parola “speranza”.

Il poeta si trasforma, la poesia si trasforma, e tuttavia quest’ultima si riconferma strumento privilegiato dell’eresia di Pasolini, finanche sua modalità costitutiva, nel farsi voce alla Rimbaud della disappartenenza di un congenito, consustanziale maladjustement protestatorio nei confronti del reale.

È naturale (e in ciò dissentirei, nella valutazione complessiva del percorso di Pasolini poeta, anche da troppo facili arresti a cronologie alte, laddove cioè la poesia è più agevolmente identificabile come tale, secondo parametri maggioritari condivisi e così sociologicamente autorizzati) che la poesia si faccia diversa, irriconoscibile, disposta a pagare il prezzo della sua diversità nell’affrontare ogni volta da capo il mondo e la Storia, a subire le conseguenze degli scandali e delle delusioni che – sfigurata e irriconoscibile come si presenta – essa stessa determina.

Anche la parola di Pasolini intellettuale si fa all’accorrenza intrattabile e distante come la testimonianza polemica di un vero eretico. È allora che la sua eresia parla per emblemi sibillini, diventa poetico trobar clus, verbo oscuro ribelle alla semantica limitante della convenzione, voce votata all’entropica polisemia e alla deriva di senso.

Il linguaggio diventa simbolico-mistico, inaudito e non integrabile, volto ad operare su un piano di per sé interessato a presentarsi altro, alieno e discontinuo, allestendo un vaticinio problematico e indecente, potenzialmente incompreso, che non ricerca ascolto solidale perché gode, indecentemente appunto, della sua intrattabilità eccessiva e paradossale: dall’antipoetico manifesto in poesia e dalla giornalistica poesia d’intervento sul fatto del giorno al culto, manieristico, solipsistico e dolente sonetto lirico à la manière de Shakespeare.

Marco Marchi

Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo



alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
alle officine di Testaccio, sopito
nel vespro: tra misere tettoie, nudi


mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude
la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smotti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga… quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido; e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
invocazioni…

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
qui nella quiete delle tombe – e insieme –   

quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando la supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.


Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso


che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,


soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento


del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale


così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso


– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?


Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando


il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza…

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro di te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
–
 nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l’individuo, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale…
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare…
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancora più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza… e ironico ardore

liberale… e rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infime minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia… Ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza!, vive l’io: io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante, violento… Ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley… Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio (greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro…
Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare… E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

Pier Paolo Pasolini

(da Le ceneri di Gramsci, 1957; il poemetto eponimo qui proposto è del 1954)

I VOSTRI COMMENTI

Lector
Grandissimo, indimenticabile Pier Paolo! Uno dei massimi poeti (e sottolineo poeti) italiani.

Il sonno della coscienza italiana è protagonista nei versi proposti oggi, e raggiunge il suo culmine nell’oscillazione tra due estremi, nell’esposizione pasoliniana: con e contro Gramsci, con e contro la classe operaia, con e contro l’ideologia marxista. L’intellettuale è dentro il mondo, ma si sente completamente tagliato fuori da ogni cosa, e guarda tutto ciò che si erge dinnanzi ai suoi occhi con lucido distacco, prende coscienza del proprio rifiuto, e al contempo della sua compassione per i vili e del suo amore verso gli ultimi.Credo che il lnguaggio di Pasolini, unico ed affascinante sai dovuto all’equazione: originalità+diversità=bellezza. La bellezza del poemetto è dovuta in parte sia alla lexis che alle figure retoriche, ma anche al tema trattato e cioè la dissociazione dei giovani (per ignoranza di lettura) dalle idee di Gramsci e alla novità del poemetto. Il raccoglimento diventa per il poeta un momento di preghiera e comune sofferenza, e nel dolore va cercando un’altrettanta imperitura purezza. Forte del suo contenuto, può essere considerata una grandissima opera d’impegno civile, attraverso cui il poeta ha voluto rappresentare, in tutta la loro drammaticità, le contraddizioni di un’epoca, dove il presunto”populismo” delle precedenti raccolte in versi, si fa carico di un’inequivocabile potenza ideologica, il cui simbolo è senz’altro il nome di Gramsci, dietro cui Pasolini ha cercato d’individuare la portata rivoluzionaria dell’ideologia marxista. Il divario che separa l’intellettuale borghese e il popolo si sublima nella creazione estetica, ovvero nella poesia.

La cifra di Pasolini, probabilmente la coscienza critica più lucida del nostro dopoguerra , sta nel vivere la contraddizione fino in fondo nello stare con e contro, dentro e fuori, passione e disincanto. Una continua tensione tra essere e dover essere. Unico modo per tenere desta una critica incessante che mai trova pace.Pasolini: un regalo che questo nostro disgraziato e futile Paese non merita.

Giulia Bagnoli
Pasolini si rivolge a Gramsci, l’intellettuale libero che ha avuto il coraggio di scrivere l’ideale, ma che purtroppo non può essere un padre, bensì solo un umile fratello che non è in grado di chiarire i dubbi e sciogliere le contraddizioni del poeta. Se da una parte infatti, nell’intelletto, Pasolini segue Gramsci, dall’altra vive seguendo l’istinto e la passione. Il poeta vorrebbe inoltre essere un proletario, ma è consapevole di essere un privilegiato, perché ha la conoscenza che caratterizza i borghesi. Il poeta sa che conoscere la storia, d’altro canto, non ha più nessun significato e alla vita ideale proposta da Gramsci scieglie invece quella passionale, istintiva ed estetica. L’ideale, pur illuminando ancora la strada, è comunque morto e ha lasciato il posto alla disperazione. Testo straziante e straordinario.

L’opera è vasta, articolata e non facile da sondare, anche se si sono spesi su di essa fiumi di inchiostro. Il realismo di Pasolini si intreccia col mistero della poesia: Pasolini non ha mai patteggiato su modi e condizioni del suo impegno estetico, ha inventato un modo di far poesia – qui di poesia che è in caccia della prosa –, facendosi tutt’uno con le sue responsabilità di poeta, col suo impegno a favore della vita rappresentata nelle sue urgenze radicali, quelle delle plebi rurali inurbate,e proletarie: un’umanità espulsa dall’Eden e forse impazzita, ma ancora saggia per diritto di nascita se non per una cultura mai acquisita. “Le ceneri di Gramsci”: poesia di passione e in un certo senso sepolcrale in terzine neodantesche e neopascoliane. Il cimitero degli Inglesi, dove è sepolto Gramsci è un buio giardino, luogo estraneo, silenzioso e infecondo. Gramsci è un “morto disadorno” la cui carica ideologica è solo potenzialmente rivoluzionaria,non già un “forte”, ma “umile fratello”. E questa parola, per la particolare biografia di Pasolini, ha un inevitabile rintocco tragico: “…tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci, / e tutto ciò che fu vita ti duole come una ferita che si riapre e dà la morte”.

Maria Antonietta Rauti
PierPaolo Pasolini: poliedrico, eccentrico, poeta di Casarsa, mai sconfitto, mai crocifisso realmente. Risorge dopo il giorno dei morti, festa continua alla vita oltre i limiti. Personalità forte, terribile nel suo essere diversamente vero, combattivo e nuovo. La modernità del suo pensiero fa tremare. La sua poesia risorge fra le Ceneri ogni volta che la si rispolvera,ogni volta che lo si richiama con la sua stessa forza di superare i preconcetti, sconfitti a priori. Da Casarsa, a Bologna, a Roma le sue Ceneri ritornano alla vita, rivivono tra le pagine delle Università e riecheggiano ogni volta che si incontra il suo nome che è in se stesso, ormai, icona senza tempo di poesia e grazia nel ricordo di chi lo ha incontrato ed amato… Grazie Pier Paolo!

Duccio Mugnai
Voler scrivere in terzine dantesche incatenate, significa voler mostrare il proprio legame alla grande tradizione poetica italiana. Attraverso questo modello-impulso metrico-lirico, chiedersi cosa significa esser italiano, e quali responsabilità comporti un riconoscimento di se stesso al di fuori dell’esempio gramsciano e di una marxista teoria scientifica. Il poeta, invece, sente il pulsare incessante della vita proletaria e sottoproletaria dei diseredati, dei poveracci, il cui destino di sofferenza, morte e dimenticanza affonda nella profondità oscura e dolorosa dei secoli. Qui sta l’unicità della sua poesia politica, o meglio civile, definita di sinistra, che nasce e muore con Pasolini, la denuncia di un disincanto, di un non credere, piuttosto che una convinta professione di fede. E’ l’involuzione di tale disincanto decostruttivo, ossessivo, impietoso anche verso se stesso, che guiderà le sue tante battaglie, non solo poetiche, ma anche politiche e sociali: ” […] Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere […]”.

Quello delle “Ceneri” è uno tra i più bei Pasolini – perché molte sono le sue facce legate alla malleabilità e poliedricità delle sue direzioni – che affonda il bisturi nel proprio corpo e nella propria persona, facendo della sua affilata ed oltranzistica autoanalisi una coraggiosa, ma volutamente non sempre lucida, autopsia: a Pasolini non rimane, ancora una volta, che il solo combattere, gettando il corpo nella lotta. Lo sbiadito soggettivismo, il rifiuto in guerra con l’invito a essere ipocritamente contraddittorio: è questa la sua dolce rabbia che si trasforma in mutabile poieticità, in smisurata creazione. Proprio questo sembra, ancora oggi a 42 anni dalla sua scomparsa, ciò che è doveroso salvare: la crisi personale di un intellettuale stabilmente in bilico, che pare ancora legato alla suggestione montaliana de “l’anello che non tiene”. Ma stavolta l’anello è Pasolini stesso, la sua vita maramaldina, il dolore nell’accettarsi impuro tra tanti, e presunti, puri.

“Al fuoco della controversia” (di luziana memoria) fra iniqua, tossica storia sepolcrale e primigenio slancio vitale, la poesia-passione – ridotta quasi a lumicino – si dibatte, si contorce, messa al rogo scoppietta, divampa, pare quasi incenerirsi … arde, (si) reverbera … mai si oscura, ne’ si lascia soffocare. Lode inestinguibile alle Ceneri. Grazie

E’ vero che leggendo “Le ceneri di Gramsci”- come anche Calvino fa notare (insieme ad una “bravura tecnica che fa sbalordire”) – subito il pensiero va a Foscolo, ai Sepolcri, e fatalmente va anche a quel giorno dei morti di tanti anni fa, a quella mattina in cui , giovanissimi, colti al risveglio dalla drammatica notizia della morte di Pasolini, ci incamminavamo lungo un percorso di cupo stupore, di meste riflessioni e di domande senza risposte, in un autunno grigio, simile, per l’ impurità della sua aria a quel maggio che maggio non era più…E in questo poema Pasolini c’è tutto, con la sua passione smisurata, la sua brama di vivere, di esprimersi, di essere ascoltato e compreso; c’è soprattutto quella contraddizione che lo ha connotato negli ultimi suoi anni, di voler vivere un “comunismo” sui generis, fatto di partecipazione alla vita (almeno apparentemente) autentica e vitale del proletariato, fuori da ogni ideologia e di ogni discorso su lotta e coscienza di classe, perché egli osservava la vita dal poeta e l’artista che era, contro la lucida razionalità di Gramsci, politico e ideologo del comunismo, in cui aveva creduto fermamente e con lui dialoga presso la  sua tomba, un po’ dandogli ragione e un po’ dandogli torto, sulle vicende di una bella, ma svilita Italia che mai, tanto meno oggi, fu ed è capace di una vera “riscossa” da un asservimento politico incancrenito e incronichito. Alla fine, Pasolini deve prendere malinconicamente atto della “non bellezza” di quel mondo proletario che aveva tanto amato ma, già ai suoi tempi, “viziato”dal consumismo. Pasolini ci è mancato e ci manca tanto, ma proprio di questi tempi in cui le sue “profezie” si sono fatte realtà, egli è più vivo che mai, molto di più di quando né il potere politico, né il favore popolare erano propriamente dalla sua parte.

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“Mi chiederai tu, morto disadorno, / d’abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo?”. Straordinario Pasolini.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Poesia sulla morte e insieme poesia della vita, Le ceneri di Gramsci rappresentano una pietra miliare della poesia pasoliniana e della letteratura contemporanea: nei suoi versi inarcati gli uni sugli altri, come anse del Tevere, ad intessere un canto in cui vibra costantemente eco della grande tradizione poetica italiana – da Dante e Foscolo fino a d’Annunzio e Pascoli – tema civile e dissidio interiore personale e umano del poeta sono intrecciati in modo indistricabile, come lo sono la vita e la morte nel “giardino” che ospita il disadorno monumento funebre di Gramsci. La terzina dantesca – e pascoliana – e l’ampio digredire conferiscono al carme il respiro ampio delle canzoni civili e in più di un’occorrenza, per somiglianza o per antitesi, gli endecasillabi de Le Ceneri richiamano la grande poesia dei Sepolcri, ma il loro fascino unico e irripetibile scaturisce proprio dall’antitesi ripetutamente scandita tra la disperata passione di essere nel mondo, che si rispecchia nella vitalità spontanea di un mondo di borgata chiuso negli orizzonti ristretti e incolti della miseria, e la consapevolezza di essere morto vivo, incapace di delineare “l’ideale che illumina”, imborghesito proprio da quella cultura che potrebbe fornirgli gli strumenti per agire nella storia.

Aretusa Obliviosa
Non posso leggere questa poesia senza pensare a quella tradizione anche letteraria che Pasolini amava e contrapponeva alla deriva contemporanea. È forse per questo che nel silenzio della morte, così come nelle urne e nella dimensione civile della seconda parte del componimento avverto una forte presenza foscoliana, quasi un appellarsi ad un recente passato già diventato mito – lo stesso Gramsci ne diviene qui alto esempio – da contrapporre ad un presente che, anziché manifestarsi vivo, si rivela paradossalmente in tutta la sua putredine e immobilità. Si veda in proposito l’insistenza sul campo semantico dell’umido. Eppure il paradosso più eclatante di tutti è in Pasolini il non poter non amare in maniera viscerale quel mondo che è oggetto stesso del suo biasimo. E questo paradosso è forse, più di ogni altra cosa, ciò che ancora oggi ci lega al Poeta e ci rende necessarie le sue parole.

Stridente, dirompente il contrasto tra il vuoto della storia e la passione per la vita. Straordinario, immenso Pasolini!

Isola Difederigo
Anche la vena civile di Pasolini, la sua rabbia, il suo odio borghese, obbedisce ad un io lirico incircoscritto, ampliato e indiviso, che ingloba il popolo e la storia, la società e la lingua in forma di antropologia del profondo. Tra la scoperta del corpo, che coincide con la scoperta della poesia, e questa allargata vocazione alla realtà con e senza Marx, la pronuncia poetica di Pasolini si fa testimoniale e profetica, la sua voce.

Il poeta, in un maggio autunnale, mentre osserva la tomba di Gramsci, si mette a riflettere sulla vita e sulla società italiana contemporanea, si rende conto della sua impossibilità di cambiarla e ne constata l’inevitabile declino. Allo stesso tempo si aggiunge anche una tematica personale: i suoi turbamenti esistenziali. Ed è così che ricordiamo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali del ventesimo secolo, un attento osservatore della società, con un eterno conflitto interno.

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