Firenze, 30 dicembre 2017 – Il post dei post 2017 si sdoppia! Sono due i vincitori alla pari di questa annata di poesia quotidianamente trascorsa assieme. Due autori molto diversi, con due testi che più diversi fra di loro non si può, quasi emblematicamente ad indicare – di per sé e anche attraverso i vostri ponderati e puntuali commenti – che la poesia può essere, come spesso anche nel corso di quest’anno abbiamo suggerito, moltissime cose. Evviva, dunque, e complimenti per  la vittoria condivisa al nostro Aldo Palazzeschi con il suo concentratissimo e singolarmente suggestivo “Chi sono?” e all’austriaco Rainer Maria Rilke con il suo splendido poemetto dal titolo “Orfeo. Euridice. Ares”.

A domani con i vostri commenti più belli dell’anno che ci lasciamo alle spalle, per festeggiare l’anno nuovo che arriva!

M. M.

PALAZZESCHI

Firenze, 1 marzo 2017 – Trionfa tra i post del mese di febbraio quello di Aldo Palazzeschi dal titolo Buon compleanno Palazzeschi!, incentrato sulla sua celebre “Rio Bo”, che qui come al solito riproponiamo. Ben diciannove commenti cui ha fatto riscontro un numero altissimo di visualizzazioni sia nel blog, sia nelle due pagine Facebook ad esso collegate, a decretare in maniera eclatante e incontrovertibile il successo di uno tra gli autori più apprezzati da chi segue le nostre “Notizie”.

Al secondo  gradino del podio un altro post anniversario e un altro classico del nostro Novecento amatissimo da tutti noi: Giuseppe Ungaretti con Buon compleanno, Ungaretti! Bronzo, infine, un po’ a sorpresa (ma una sorpresa che ci rallegra, considerata la stima che nutriamo per questa sottovalutata figura del secondo Novecento italiano) per Margherita Guidacci, con il post incentrato su un suo componimento molto felice, di ispirazione dickinsoniana, dal titolo citazionale, ossimorico e suggestivo, L’acqua assetata. Margherita Guidacci.

Tra i vostri commenti la scelta stavolta è davvero difficile: ma ne scelgo tre, e in particolare quelli di m , Matteo Mazzone e Laura Diafani (che ringrazio per l’elogio, ma il commento è stato selezionato, naturalmente, non in base a questo!). Rispettivamente: “Il grande Aldo Palazzeschi è stato davvero una figura unica nel nostro Novecento: eppure ancora oggi la sua profonda originalità non è riconosciuta da tutti. La sua apparente leggerezza, da molti scambiata per giocosità fine a se stessa, funziona piuttosto in senso dissacratorio, come impulso destabilizzante per la società – e la psicologia – borghese. Un autore da rileggere e rimeditare, insomma, tenendo a mente quanto egli stesso confessò in una poesia tarda: ‘io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare’. “; “Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile ‘:riflessi’, a ‘Due imperi mancati’ – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale ‘Interrogatorio alla Contessa Maria’, fino al terminale ‘Storia di un’amicizia’. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – solo nella vita ma amato dai colleghi. In tal modo ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.”; “Che bella interpretazione, questa di Marco Marchi, nel segno di una irriverenza infantile dove “infantile” vuol dire occhio aperto e nuovo sul mondo, un vedere esplorativo non filtrato dagli schemi altrui. Anche in quella prosa memorialistica poi, che sembra zoppicare nel procedere per accumulo, accatastamenti un po’ boccacciani, ma poi torna sempre alla riva dopo averti fatto un giro sintattico inaspettato. Viene in mente il Leopardi di una famosa lettera a Giordani: ‘vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita’”.

Ma anche Isola Difederigo ha colto molto nel segno, quando con finezza ha scritto (e così i commenti trascelti diventano da tre quattro): “Un poeta ‘fanciullino’ che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere ‘un uomo molto leggero’. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso, alla ricerca di una profondità che si sa tutta e solo in superficie; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, ‘per amore della vita’. Come in questo ispirato ‘idillio’ giustamente famoso, dove lo sguardo del poeta chiude in un abbraccio cielo e terra, e trova in questo la sua rima”.

Buon Palazzeschi a tutti con il suo paesello da favola!

Marco Marchi

Buon compleanno, Palazzeschi!

VEDI I VIDEO ‘Rio Bo’ letta da Vittorio Gassman , Miniantologia poetica: “Versi dalla casina di cristallo” , “I fiori” letta da Paolo Poli , “Lo sconosciuto”

Firenze, 2 febbraio 2017 – Ricordando che il 2 febbraio 1885 nasceva a Firenze Aldo Palazzeschi.

Da L’Incendiario – per via di occultamento, contraffazione, sostituzione e riadattamento nell’ambito di rinnovate esigenze espressive – ad una prosa autobiografica di tipo memoriale intitolata Incendiario; dal 1910 (al tempo cioè del futurismo e di Marinetti) al 1932 (negli anni del cosiddetto «ritorno all’ordine»).

A un avanguardistico, mostruoso e seducente Dio del fuoco, della trasgressione e dell’eversione, subentra nel sorridente ed antiavanguardistico Palazzeschi di Stampe dell’800 – reso irreperibile quel mostro – il più conciliativo ed accettabile ritratto di un bambino un po’ troppo vivace di appena tre anni che, da piccolo piromane in famiglia, da sculacciabile incendiario inconsapevole e davvero innocente, fa di una scatola di fiammiferi il suo strumento di affermazione personale, la sua protesta contro oppressive minestre da sorbire tra i confini di invalicabili finestre.

Analogamente, nel capitolo successivo del medesimo libro, allo stesso bambino fattosi solo un po’ più grande, di cinque anni, Palazzeschi memorialista affida l’avventurosa esplorazione dell’esterno, di zone fuori casa, di paesaggi naturali immensi popolati e pericolosi, da evitare. Oltre il divieto, contro il divieto: si affonda ancora nell’infanzia, in quella che un altro scrittore fiorentino, Bruno Cicognani, avrebbe chiamato l’«età favolosa». Veicolato da ricorrenti miniaturizzazioni metaforiche di contrasto (un cagnolino di contro all’elefante) o dagli stessi diminuitivi-vezzeggiativi grammaticali dialogicamente e monologicamente impiegati dalla Piramide del tipo «pollastrino» e «lodoletta» (al femminile, quest’ultimo, in seguito cassato, come in un’opera ora in disuso di Pietro Mascagni), il poeticizzato recupero dell’anelito libertario fuori casa trova ambientazione nelle domenicali Cascine dei Fiori della libertà.

Diffidare, con Palazzeschi, almeno dopo la celebre poesia lacerbiana del ‘13, di ogni genere di fiori e, insieme, di ogni genere di libertà: «Mentre però nei miei cresceva la sicurezza di quel fatto consueto, cresceva in me un desiderio vago di andare un po’ più avanti, dove non arrivavano quegli occhi dai quali mi sentivo tenuto come da un filo: romper quel filo senza saper perché. […] Andavo lungo le siepi alte, fra i grandi tronchi tortuosi, nelle radure o nel folto, levando le gambe fra lo sterpame del basso bosco, fra l’erbe umide, su cui mi piegavo di tanto in tanto per cogliere una pervinca […]. Dove andavo? Senza mèta, senza idea, senza invito… […] Senza paura del buio che veniva, delle ombre che sarebbero discese solenni dalle piante per inghiottirmi, né del vuoto che si faceva intorno in tutto il parco col grigior della sera; senza febbre d’avventura, senza tema e senza gioia; senza curarmi se potesse taluno notare la mia presenza solo in quel luogo e a quell’ora. […] la mia scappata era fine a se stessa: pura».

La «scappatella», insomma, come le esili pervinche raccolte, color del cielo, da piccolo Perelà che, anche chinandosi per fare un mazzolino, guarda in alto, alla sua patria: da ispirato e incurante Cristo fanciullo allontanatosi per fare le cose del Padre suo. Ma ecco, proprio «ad uno svolto», «nella bella foresta artificiale che si chiama “Le Cascine”», «sul luogo del misfatto» e della «colpa», l’incontro: una violenta, sconcertante, traumatica apparizione – mutatis mutandis nel nome di Freud – da Piramide, con un bambino sorpreso, sconcertato, «incapace di prendere l’iniziativa di un passo», «in balìa di quella foga», «incalzato, sbattuto, stiracchiato giù giù per il viale»: «Qualche cosa di enorme mi fu addosso, me ne sentii acciuffato e coperto, sepolto; e senza più distinguere intorno, da un diluvio di colpi percosso, e sopra sotto e dappertutto. Trafelato, gocciolante di sudore mio padre […] mi aveva ritrovato e m’era sopra combattuto tra la felicità di riavermi intatto e di sentirmi suo dopo chi sa quale angoscioso fantasticare, e il bisogno di ripagarsi su me della pena che gli avevo fatto soffrire, facendomi soffrire».

Non il «male», dunque (il cattolico peccato o la «macchia che l’acqua non lava» di un’antica poesia di Lanterna), ma la «purezza», ad avere sollecitato quegli esplorativi e disubbidienti movimenti di fuoriuscita da regole imposte, quegli inspiegabili, misteriosi e suggestivi allontanamenti dall’incipiente sociale e esistenziale conosciuto e ritenuto insufficiente, estraneo, quei lirici primi passi di ricerca dell’io che di infantile màrchiano – per tracce indelebili di uno scandalo che anche così si rivela e di continuo si aggiorna – immaginario, visioni del mondo ed onomastica: Aldino, Valentino, l’omino di fumo, Zeffirino, Giacomino «boccino di rosa», Celestino, Stefanino che di rosa ha perfino la sua coperta di lana di trovatello…

Tutto si fa piccino, proprio come nel minuscolo paese dell’anima cantato in Rio Bo. «E ritornando nel mio bel castello – come si legge nella splendida La mano – / temere d’incontrare / gli sguardi famigliari, / perché possono capire i miei cari / dove sono stato! / Certamente Cherubina ormai à capito, / mi guarda senza dirmi nulla / al mio ritorno, e pensa: / che cattivo marito! / E Stellina, e Cometuzza, / mi guardano con occhio pio pio, / che mi dice assai bene: / dove sei stato, / fratellino mio?». Un castello da lillipuziano e osceno bestiario dell’intimità familiare pronto a farsi solitaria piramide da figurina Talmone o, come in Interrogatorio della Contessa Maria, maliziosa «cameretta» erotica per sottovalutati bambini «piscioni»: bambini in «vestina» e «calzoncini», pretestuosamente alla ricerca su un atlante di isole piccolissime.

Marco Marchi

Rio Bo

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre disopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di Rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.

Aldo Palazzeschi 

(da Poemi, 1909, poi in Poesie)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51
Un esempio preclaro di miniaturismo palazzeschiano, tra favola e profondo, gioco scandalosamente divertito e rivelazione di sé. Grande Palazzeschi: sempre geniale, sempre attuale, mai innocuo! Che cosa sarebbe il Novecento italiano senza di te?

cesare
Tutto è piccolo e minuto in questi pochissimi versi di Palazzeschi. Le casettine, il praticello, un esiguo ruscello, il microscopico paese. Di grande solo una stella speciale, che illumina il paesino, da fare invidia ad una grande città. In ciò l’amore per un piccolo borgo, dal nome dell’esiguo rio che lo attraversa. Una miniatura graziosa, dall’aspetto vezzeggiativo della poesia del Poeta.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Che incanto questo “Rio Bo”! La magia dei versi liberi di Palazzeschi ci proietta in un paese da favola direi “a suon di musica”: a riprova della cantabilità del verso palazzeschiano possiamo del resto ricordare che alcune delle sue poesie più famose furono musicate e tra queste proprio “Rio Bo”, musicata da Agide Tedoldi nel 1937 per Ricordi. Musica, poesia, favola, ma soprattutto la limpida ironia di Aldo Giurliani, non per nulla fiorentino e legato alla tradizione toscana! Quello dell’ironia è uno strumento difficile, solo un grande scrittore come Palazzeschi poteva utilizzarlo in modo così vario, incisivo, corrosivo e nello stesso tempo divertente e funambolico, nel corso della sua abbondante produzione letteraria. E se riflettiamo sul significato originario di ‘finzione’della parola ironia, di origine greca, capiamo meglio come Palazzeschi, utilizzando al meglio le sue doti e la sua verve, abbia scelto di utilizzare proprio quest’arma per criticare dal di dentro e con grande efficacia quel mondo borghese a cui apparteneva.

m
Il grande Aldo Palazzeschi è stato davvero una figura unica nel nostro Novecento: eppure ancora oggi la sua profonda originalità non è riconosciuta da tutti. La sua apparente leggerezza, da molti scambiata per giocosità fine a se stessa, funziona piuttosto in senso dissacratorio, come impulso destabilizzante per la società – e la psicologia – borghese. Un autore da rileggere e rimeditare, insomma, tenendo a mente quanto egli stesso confessò in una poesia tarda: “io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare”.

Marco Capecchi
La modernità di un poeta che può essere letto a più livelli. Incredibilmente consapevole del mondo in cui vive e a cui in fondo aderisce: dissimula onestamente e si fa apprezzare dalla beghina e dal dandy. Si, un poeta e scrittore unico nel panorama del ‘900.

JR Biagioli
Poeta del Fuoco, poeta che illumina le cose e ne svela il colore, in un mondo affetto da daltonismo emotivo. Rio Bo cela tantissimi colori e a me paiono evidenti il blu e il verde. Si scorge il verde del prato, un colore puro, e il blu del cielo scuro riflesso nel Rio, che non ha colore proprio e per questo è ancora più puro. Ecco, Palazzeschi ama proprio questa trasparenza del fosso. I grandi poeti vedono guizzi d’erba, vedono elementi fusi come metalli differenti, vedono un prato che come una trota fa cambiando di colore nel rigagnolo. Ma Palazzeschi, ingenuo e genuino, custodisce gli occhi di un bambino, che può cambiare come fossero occhiali. Bellissima la figura del cipresso che ondeggia e ogni tanto tocca con la punta, ma purtroppo solo in prospettiva, la stella occhieggiante. Sembra un mito greco.

Tania Montini
Palazzeschi, anche accostandosi ai movimenti contemporanei, ha sempre mostrato la sua individualità e una particolare originalità. I temi crepuscolari da lui ripresi , sono privi di languori eccessivi e anche se ne ricalca certe situazioni, sostituisce però lo scherzo al sospiro e contamina il tono elegiaco con la presa in giro, che conferisce alle sue liriche il carattere di divertimento.
La sua è una vocazione al gioco della fantasia e al riso, tracciando una sua personale filosofia di vita, dicendo che “bisogna abituarsi a ridere di tutto quello che di cui abitualmente si piange”, sviluppando la nostra più intima profondità.

Giulia Bagnoli
Un piccolo paese, ma con una magnifica stella da fare invidia ad una grande città. Una poesia che sembra un dipinto con pochi colori sbiaditi. Un inno alle piccole cose e alla purezza

Aretusa Obliviosa
Una cosa da nulla, un paese in miniatura, un mondo da cannocchiale rovesciato, così come a rovescio si presenta sempre, nella sua irriverenza, la poesia di Palazzeschi; quasi da perenne carnevale. Ma un carnevale dai toni, talvolta, un po’ dimessi, crepuscolari, direi. Ed è forse per questo che non ho mai potuto separare nel mio immaginario certi microscopici mondi cristallizzati palazzeschiani (siano essi attinti a “Rio Bo” o ad altri componimenti delle prime raccolte) dall’innocuo (?) roteante meccanismo di un vecchio carillon, da aggiungere anch’esso al catalogo delle piccole cose di pessimo gusto, in fondo. Saremmo dunque al cospetto di un oggetto non più significativo di un vecchio ritratto, di un impolverato souvenir… Se non fosse per quella stella, occhieggiante e magnifica, nonché simbolica, dietro la quale l’estro del nostro poeta una volta ancora si nasconde e ci fa uno sberleffo.

Matteo Mazzone
Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al terminale “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – solo nella vita ma amato dai colleghi. In tal modo ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Daniela Del Monaco
Rio Bo è un silenzioso e tranquillo paese immerso in un’atmosfera quasi fiabesca, con poche case, un prato verde e un piccolo ruscello. Spicca soltanto un alto cipresso, qui non a simboleggiare qualcosa di cupo, anzi, raffigurato come una sentinella che sorveglia amorevolmente il villaggio.
Questo “paese da nulla”, talmente piccolo da risultare quasi invisibile, ha un privilegio che nemmeno una grande città può vantare: vi è sempre sopra una stella che brilla instancabile e che maliziosamente, ogni sera, si lascia accarezzare dalla punta del cipresso. Rio Bo, dunque, è tutt’altro che insignificante: rivela, a chi sa osservarlo con attenzione, un incanto misterioso.

Chiara Scidone
Sono particolarmente affezionata a Palazzeschi. Ho conosciuto e letto alcuni dei suoi romanzi facendo un esame per l’università. Uno scrittore, una personalità unica, divertente e originale, una perla del novecento italiano. La mia poesia preferita è “i fiori” immorale ma in chiave comica, la trovo geniale. Non solo un grande poeta ma anche un bravissimo scrittore. Avendo letto alcuni suoi romanzi posso dire che in ogni sua opera c’è un pezzo di sé, un qualcosa di autobiografico, a partire da riflessi, fino all’ interrogatorio della contessa Maria, meno conosciuto ma uno dei miei favoriti. Mi auguro che altre persone, che come me, non lo conoscevano, possano venirne a conoscenza e appassionarsi. E infine come poteva non piacermi un autore che ha pubblicato le prime opere con editore Cesare Blanc ( il suo gatto ). Buon compleanno Palazzeschi!

Laura Diafani
Che bella interpretazione, questa di Marco Marchi, nel segno di una irriverenza infantile dove “infantile” vuol dire occhio aperto e nuovo sul mondo, un vedere esplorativo non filtrato dagli schemi altrui. Anche in quella prosa memorialistica poi, che sembra zoppicare nel procedere per accumulo, accatastamenti un po’ boccacciani, ma poi torna sempre alla riva dopo averti fatto un giro sintattico inaspettato. Viene in mente il Leopardi di una famosa lettera a Giordani: “vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita”.

Finizio Simona
Già dall’inizio della poesia si percepisce un paese minuto (tre casettine, verde praticello, piccolo ruscello) che però viene contrapposto con la grandezza del cipresso. Cipresso che ha anche una certa importanza in quel piccolo paese. Il villaggio in questione, secondo l’autore, è insignificante, però il cielo che lo sovrasta è stellato ed una stella in particolar modo è grande e luminosa. La stella in questa poesia è simbolo di portatrice di fortuna e di buon umore e oltretutto ha una tale importanza in quanto, secondo Palazzeschi, neanche una grande città, ne possiede una simile. Il paesino “Rio Bo” si può contrapporre alla cameretta provocante della Contessa Maria. L'”Interrogatorio della contessa Maria” viene riportato come una dualità conflittuale, un’amicizia complice, un confronto inesauribile; in un qual senso come riportato in minori termini nella poesia “Rio Bo”.

Sabina C.
Una deliziosa ‘semplicità’ attraversa questo ‘quadretto’, che si nutre di meraviglia e giocoso, fanciullesco stupore. Occhieggia la stella che veglia, rendendo l’atmosfera ancor più evanescente e magica. È un accattivante invito a tuffarsi e immergersi piacevolmente nell’immaginifico mondo della fantasia … senza riserve, con lo slancio ‘incosciente’ di chi osa sfidare l’ingombrante, conformista peso delle asfittiche convenzioni.

Isola Difederigo
Un poeta “fanciullino” che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere “un uomo molto leggero”. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso, alla ricerca di una profondità che si sa tutta e solo in superficie; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, “per amore della vita”. Come in questo ispirato “idillio” giustamente famoso, dove lo sguardo del poeta chiude in un abbraccio cielo e terra, e trova in questo la sua rima.

Yumiko Nakajima
Nel “Rio Bo” si possono trovare i punti particolari di Palazzeschi, cioè la vista dall’alto (la stella magnifica) come sale in cielo l’uomo di fumo e come saliva sulla scaletta Palazzeschi stesso e anche la stella che illumina la città come il fuoco delle candele. E’ interessante fra la stella e delle case piccole, dell’esiguo fiume c’è un vigile cipresso.

Erika Olandese Volante
Buon compleanno, caro Palazzeschi! E grazie per la splendida magia delle tue parole, perché ad ogni rilettura la tua anima riecheggia e ci strizza l’occhio dalle pagine dei libri e da quelle, più contemporanee, del nostro blog… Un abbraccio e un mazzo di rose selvatiche, come volevi tu, quelle “che vanno col tempo”!

Lorenzo Dini
Crepuscolare sui generis, poi futurista sempre a modo suo, uomo del suo tempo e mai prigioniero di esso come ci ricorda Montale, Palazzeschi rappresenta la  voce irriducibile che si rifiuta di prendere disciplinatamente posto nella linea grave e lirica della nostra tradizione poetica italiana. E così, col rifiuto della Poesia con la P maiuscola, Palazzeschi nel suo mondo piccino piccino di “Rio Bo” si nasconde dietro all’astro con la solita smorfia beffarda del clown.

RILKE

31 gennaio 2017 – Un meritatissimo e graditissimo trionfo, questo mese, quello del grande Rainer Maria Rilke con il suo post dal titolo Orfeo, Euridice, Ermes. Rilke nell’arcana miniera delle anime, incentrato su un vero gioiello della sua sempre alta ed ispirata produzione in versi. Rilke, come tutti sanno, non è autore facile, ma la bellezza che vorrei definire autoevidente di questo poemetto tra mito antico e rivisitazione in chiave moderna si è imposta all’attenzione di molti, decretandone con un’ampia serie di commenti l’affermazione. Anche quando più complessa e misteriosamente avvolta nelle sue leggi che non altro rimandano che alla sua stessa configurazione testuale, la vera poesia giunge sempre alla mente e al cuore di chi la ricerca, di chi a lei con confidenza si rivolge.
Anche i vostri commenti del mese risaltano per ampiezza e penetrazione. Ne scegliamo come al solito tre: quelli, stavolta, di Aretusa Obliviosa, di framo e di Matteo Mazzone. Rispettivamente: “All’orecchio di chiunque ami c’è una parola, in questa lirica, che suona terribile, scandalosa, intollerabile, ed è quel “chi” posto a fine di verso nella versione italiana (non conosco il tedesco, purtroppo), oltre il quale sembra calare il gelo assieme al silenzio. A nulla valgono i versi precedenti: nonostante Euridice venga descritta ormai come una entità lieve, che non ha più niente di umano, aldilà della soglia della vita per essere con la morte, il mancato riconoscimento di Orfeo risulta inevitabilmente inaccettabile per il lettore che con lo stesso amante si identifichi. E in effetti non altro che senso di morte e sgomento prova in cuor suo ogni persona che amando si senta improvvisamente rifiutata. Rilke riesce con il suo genio e la sua ispirazione a dire tutto questo e molto di più. Basti pensare al continuo oscillare fra vita e morte, centrale in questa lirica così come nella poetica stessa dell’autore e alla serie di antinomie che ne scaturiscono: la gravità contro la levità, l’impazienza contro l’incerta mitezza, la percezione dei sensi contro l’intangibilità. La visione rilkiana dell’aldilà e più in generale dell’ignoto che da qui scaturisce mi pare in conclusione del tutto negativa: se è all’insegna della mitezza per un’ancora inconsapevole Euridice appena iniziata alla dimensione della morte, per il lettore essa risulta indissolubilmente legata all’arcano, al tenebroso, a scenari spettrali connotati da vuoti abissi e dall’assenza di ogni nota di colore, fatta eccezione per un onnipresente grigio che tuttalpiù finisce con lo sbiancare in una tavolozza monocromatica sempre più scialba. Eppure ancora molto resterebbe da dire, a proposito, per esempio, di una poesia che, seppur modernissima, sembra voler recuperare nell’essenzialità e purezza lessicale la primigenia dimensione epica dell’oralità. Ma è un’epica quella rilkiana scevra di valori da proporre o da insegnare, connotata piuttosto da un senso di angoscia che sembra permeare ogni molecola dell’esistente ed aleggiare ovunque, fino a divenire, almeno per me, indiscussa novecentesca protagonista in molte pagine dell’autore.
Ma mi rendo conto che potrei continuare a spendere parole e che Rilke resterebbe comunque molto più di quanto detto“, “Assieme al ritrarsi fatale sia di Euridice (resasi irreversibilmente “intangibile”) sia di Orfeo (fattosi “scuro”, “irriconoscibile” e immobile) a cosa approda questa mirabile full immersion nell’esperienza straniante della perdita irrevocabile (di sè, del mondo conosciuto ed esperito, dei suoi elementi più consueti e condivisi)? Come sempre in Rilke il percorso si fa meta. In un processo di continua metamorfosi – in cui mondi, soggetto, oggetto e attributi compenetrandosi si “sfigurano” e sfigurano -, dalla soglia dell'”uscita chiara” di questo viaggio al cuore della tragedia, non più impaziente, fa ingresso lo sguardo del postOrfeo rilkiano, reso ormai “mite” dal passo turbato della morte; e con esso un modello insuperabile di poesia che, esortando a “mescolare (i morti) a ogni cosa veduta”, riesce a “rendere vero” l’incanto di ogni immagine creata e/o ricreata (Dai “Sonetti a Orfeo” – I,6). A novant’anni dalla morte, Rilke, incontrovertibilmente il più grande“; “La trascrizione di uno dei più celebri trai miti metastorici si traduce in un canto del lamento, dell’impossibilità melanconica della restituzione: un amore morto che vive nella morte confezionata perché adattata ai prigionieri-amanti. Tutto è straordinariamente liricizzato: niente stona. La cadenza, la giusta ponderazione del segno linguistico trasumana ogni più abietta sensazione di “tristitiam”; è la mitizzazione, la cristallina descrizione di un mito, per cui l’atmosfera che va creandosi è quella paradossale del mito del mito, cui Rilke e la sua poesia ci hanno felicemente abituati. Canto, strumento, tenebra, morte: oggetti e luoghi che ricordano il musico infernale Orfeo, la sua dolorosa esperienza dell’esperibile, che, purtroppo, naufraga per colpa di quella prerogativa troppo umana, dantescamente “folle”: la fretta. Tutto precipita: dalla vita ad un’altissima meditazione circa la morte: morte del pensiero, del corpo, del senso“.
Ma come, fra tanta dovizia di intuizioni e indicazioni, non ricordare anche il commento breve ma intenso di Giacomo Trinci che musicalmente ci invita all’ascolto? Scrive Trinci: “Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio“.
Al secondo e al terzo posto del podio di gennaio due ex aequo, con quattro autori italiani di primo piano: argento per Giorgio Caproni e Camillo Sbarbaro ( L’amore d’inverno. Giorgio Caproni e Il risveglio di Camillo Sbarbaro), bronzo per Mario Luzi e Federigo Tozzi (Luzi e la somma equalità del giorno e Tozzi poeta e le antiche torri di Siena).

A domani, con nuove letture e con una nuova gara!

Marco Marchi

Orfeo, Euridice, Ermes. Rilke nell’arcana miniera delle anime

VEDI I VIDEO “Orfeo. Euridice. Ermes”“Orpheus. Eurydike. Hermes” , “J’ai perdue mon Eurydice” di Gluck cantata da Maria Callas“Euridice” di Roberto Vecchioni , “Esperienza della morte”

Firenze, 3 gennaio 2017 Ricordando, a qualche giorno di distanza dalla ricorrenza anniversaria, che il 29 dicembre 1926 moriva a Montreux, in Svizzera, il grande Rainer Maria Rilke.

Orfeo. Euridice. Ermes

Era l’arcana miniera delle anime.
Esse per quella tenebra vagavano,
mute vene d’argento. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,
e greve come porfido sembrava
in quel buio. Di rosso altro non v’era.

V’erano rocce,
boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto
e quello stagno grande, grigio, cieco
che incombeva sul suo letto remoto
come cielo piovoso su un paesaggio.
E la striscia dell’unico sentiero,
scialba tra prati, facile e paziente,
pareva lino steso a imbiancare.

Per quell’unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l’uomo snello,
muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.
Il suo passo ingoiava il sentiero
a grandi morsi, senza masticare;
dalle pieghe cadenti gli pendevano
le mani, grevi e serrate, ormai
dimentiche di quella lieve lira
che sulla sua sinistra era cresciuta
come tralci di rosa sull’ulivo.
E i suoi sensi sembravano divisi:
l’occhio correva avanti come un cane,
si voltava, tornava e ripartiva
e aspettava lontano, a ogni curva,
ma l’udito indugiava come l’odore.
Talvolta a lui pareva che intralciasse
il passo agli altri due che dovevano
seguirlo su per tutta la salita.
Allora dietro solo l’eco
dei suoi passi e il vento nel mantello.
Ma diceva a se stesso che venivano,
e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.
Sì, venivano infatti, ma entrambi
avevano il piede troppo lieve.
Se si fosse voltato (e non poteva,
poichè un solo sguardo frantumava
tutta l’impresa da portare a termine),
li avrebbe visti, i due dal piede lieve,
camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell’ampio messaggio,
con il casco sugli occhi luminosi,
l’agile verga tesa innanzi al corpo,
le ali oscillanti intorno alle caviglie;
e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira
levò lamento più che mai le prefiche;
e sorse un mondo di lamento in cui
tutto ricompariva: bosco e valle,
strada e paese, campo e fiume e bestie;
e intorno a questo mondo di lamento,
così come intorno all’altra terra,
un sole si volgeva, e tutto un cielo
pieno di stelle, silenzioso, un cielo
di lamento con stelle sfigurate-:
lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,
con il passo frenato dalle lunghe
bende funebri, ella camminava
incerta, mite e senza impazienza.
Raccolta in sè e come trasognata,
non pensava a colui che le era innanzi,
nè alla strada su verso la vita.
Era raccolta in sè, e la impregnava
il suo stato di morte.
Se un frutto è pegno di dolcezza e d’ombra,
quella sua grande morte colmava,
così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,
e intangibile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore verso sera,
e le sue mani così disavezze
alla vita nuziale che persino
il contatto di quell’esile dio
tanto lieve e gentile nel condurla,
la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda
che si udiva nei canti del poeta,
non più il profumo e l’isola del talamo,
nè più era il possesso dell’uomo.

Era già sciolta come una lunga chioma
e già dispersa come pioggia in terra,
e diversa come retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all’improvviso
il dio la fermò e con dolore
pronunciò le parole: Si è voltato!-,
lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull’uscita chiara,
stava qualcuno, irriconoscibile.
Stava e guardava un tratto del sentiero
in mezzo ai prati ove il dio del messaggio
si voltava in silenzio, mesto in viso,
e si avviava a seguire la figura
che già ripercorreva quel sentiero,
con il passo frenato dalle bende,
incerta, mite e senza impazienza.

(traduzione di Gilberto Forti)

Orpheus. Eurydike. Hermes

Das war der Seelen wunderliches Bergwerk.
Wie stille Silbererze gingen sie
als Adern durch sein Dunkel. Zwischen Wurzeln
entsprang das Blut, das fortgeht zu den Menschen,
und schwer wie Porphyr sah es aus im Dunkel.
Sonst war nichts Rotes.

Felsen waren da
und wesenlose Wälder. Brücken über Leeres
und jener große graue blinde Teich,
der über seinem fernen Grunde hing
wie Regenhimmel über einer Landschaft.
Und zwischen Wiesen, sanft und voller Langmut,
erschien des einen Weges blasser Streifen,
wie eine lange Bleiche hingelegt.
Und dieses einen Weges kamen sie.

Voran der schlanke Mann im blauen Mantel,
der stumm und ungeduldig vor sich aussah.
Ohne zu kauen fraß sein Schritt den Weg
in großen Bissen; seine Hände hingen
schwer und verschlossen aus dem Fall der Falten
und wußten nicht mehr von der leichten Leier,
die in die Linke eingewachsen war
wie Rosenranken in den Ast des Ölbaums.
Und seine Sinne waren wie entzweit:
Indes der Blick ihm wie ein Hund vorauslief,
umkehrte, kam und immer wieder weit
und wartend an der nächsten Wendung stand, –
blieb sein Gehör wie ein Geruch zurück.
Manchmal erschien es ihm als reichte es
bis an das Gehen jener beiden andern,
die folgen sollten diesen ganzen Aufstieg.
Dann wieder wars nur seines Steigens Nachklang
und seines Mantels Wind was hinter ihm war.
Er aber sagte sich, sie kämen doch;
sagte es laut und hörte sich verhallen.
Sie kämen doch, nur wärens zwei
die furchtbar leise gingen. Dürfte er
sich einmal wenden (wäre das Zurückschaun
nicht die Zersetzung dieses ganzen Werkes,
das erst vollbracht wird), müßte er sie sehen,
die beiden Leisen,die ihm schweigend nachgehn:

Den Gott des Ganges und der weiten Botschaft,
die Reisehaube über hellen Augen,
den schlanken Stab hertragend vor dem Leibe
und flügelschlagend an den Fußgelenken;
und seiner linken Hand gegeben: sie.

Die So-geliebte, daß aus einer Leier
mehr Klage kam als je aus Klagefrauen;
daß eine Welt aus Klage ward, in der
alles noch einmal da war: Wald und Tal
und Weg und Ortschaft, Feld und Fluß und Tier;
und daß um diese Klage-Welt, ganz so
wie um die andre Erde, eine Sonne
und ein gestirnter stiller Himmel ging,
ein Klage-Himmel mit entstellten Sternen – :
Diese So-geliebte.

Sie aber ging an jenes Gottes Hand,
den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.
Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,
und dachte nicht des Mannes der voranging,
und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.
Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein
erfüllte sie wie Fülle.
Wie eine Frucht von Süßigkeit und Dunkel,
so war sie voll von ihrem großen Tode,
der also neu war, daß sie nichts begriff.

Sie war in einem neuen Mädchentum
und unberührbar; ihr Geschlecht war zu
wie eine junge Blume gegen Abend,
und ihre Hände waren der Vermählung
so sehr entwöhnt, daß selbst des leichten Gottes
unendlich leise, leitende Berührung
sie kränkte wie zu sehr Vertraulichkeit.
Sie war schon nicht mehr diese blonde Frau,
die in des Dichters Liedern manchmal anklang,
nicht mehr des breiten Bettes Duft und Eiland
und jenes Mannes Eigentum nicht mehr.

Sie war schon aufgelöst wie langes Haar
und hingegeben wie gefallner Regen
und ausgeteilt wie hundertfacher Vorrat.

Sie war schon Wurzel.

Und als plötzlich jäh
der Gott sie anhielt und mit Schmerz im Ausruf
die Worte sprach: Er hat sich umgewendet -,
begriff sie nichts und sagte leise: Wer?

Fern aber, dunkel vor dem klaren Ausgang,
stand irgend jemand, dessen Angesicht
nicht zu erkennen war. Er stand und sah,
wie auf dem Streifen eines Wiesenpfades
mit trauervollem Blick der Gott der Botschaft
sich schweigend wandte, der Gestalt zu folgen,
die schon zurückging dieses selben Weges
den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Rainer Maria Rilke

(1904; da Nuove poesie)

I VOSTRI COMMENTI

Maria Antonietta Rauti
Forte l’immanenza di Rilke tra i suoi splendidi versi che dipingono con pennellate leggere immagini della miniera delle anime che non può non riportare alla mente Dante e la Divina Commedia… Presenze che sono sopraffatte da un cielo di lamento con stelle sfigurate, qui la magia delle parole ben accostate dal Poeta arrivano a proporre un teatro perfetto in ogni sua componente.

m
Secondo me, un Rilke al suo massimo splendore: maturo e controllato nelle esplosioni della fantasia; leggero e maestoso insieme; lirico e miracolosamente melodico (la lingua si fa musica), ma allo stesso tempo narrativo e non troppo enfatico. Da ricordare anche la splendida, impetuosamente giovanile traduzione di Giaime Pintor.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall'”uscita chiara”.

Marco Capecchi
Lascia senza fiato. Semplicemente stupenda. Da rileggere, in silenzio, e ogni mio commento rischierebbe di sciuparla.

Matteo Mazzone
La trascrizione di uno dei più celebri trai miti metastorici si traduce in un canto del lamento, dell’impossibilità melanconica della restituzione: un amore morto che vive nella morte confezionata perché adattata ai prigionieri-amanti. Tutto è straordinariamente liricizzato: niente stona. La cadenza, la giusta ponderazione del segno linguistico trasumana ogni più abietta sensazione di “tristitiam”; è la mitizzazione, la cristallina descrizione di un mito, per cui l’atmosfera che va creandosi è quella paradossale del mito del mito, cui Rilke e la sua poesia ci hanno felicemente abituati. Canto, strumento, tenebra, morte: oggetti e luoghi che ricordano il musico infernale Orfeo, la sua dolorosa esperienza dell’esperibile, che, purtroppo, naufraga per colpa di quella prerogativa troppo umana, dantescamente “folle”: la fretta. Tutto precipita: dalla vita ad un’altissima meditazione circa la morte: morte del pensiero, del corpo, del senso.

Giacomo Trinci
Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio.

Questo capolavoro assomiglia a un sogno inquietante, nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso, solo per perderlo dopo un momentoL’estraniamento è forte in ogni indivuduo, e proprio a questa parte , specificatamente, questo canto deve la sua suggestione. Euridice ormai appartiene all’Averno, ha perso il rosso del sangue e il calore della sua corporeità. La sua fertilità si trasfigura in un’altra dimensione fisica, non più a Orfeo appartiene ormai, ma alla terra: ” è già radice”.

Chiara Scidone
Opera eccellente. Finalmente possiamo vedere il punto di vista di Euridice. Ella, ancora avvolta nelle bende funebri, appartiene sempre più al mondo dei morti, incurante e indifferente, non riconosce neanche il volto dell’amato Orfeo quando egli si volta. Si lascia risucchiare dall’ade, ormai è radice. Morte dei sentimenti, non solo del corpo…

Sabina C.
Certa, paziente, indifferente, lentamente Euridice… incede, nel silenzioso vuoto della dimensione eterna che la pervade. Incerto, impaziente, ‘differente’, vigorosamente, impetuosamente Orfeo… cede! Meraviglia!

Maria Grazia Ferraris
Il mito di Orfeo e Euridice è fondativo della storia della cultura occidentale: pone una molteplicità di questioni che sono particolarmente significative dal punto di vista speculativo: la poesia, il canto, la ricerca, il limite, l’amore, la morte… il mito e il logos… D’altra parte la rilevanza strettamente filosofica del mito è già implicita nelle prime versioni più complete e dettagliate del mito stesso, che risalgono a Virgilio, nel IV libro delle “Georgiche”, e a Ovidio, nel X libro delle”Metamorfosi”. Dice Virgilio: “Quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante, perdonabile invero se i Mani sapessero perdonare: si fermò, e proprio sulla soglia della luce…” Accresce il pathos. E si volse a guardare la sua diletta Euridice. La trasgressione del patto stipulato con Plutone e Proserpina è compiuta, e la prima immediata reazione è della stessa Euridice che -rivolgendosi a Orfeo – esclama: “Chi ha perduto me, sventurata, e te Orfeo? Quale grande follia?”. Che cosa induce Orfeo a un gesto di ‘furor’, di ‘subita dementia’, di insania? Il patto-non voltarsi- era davvero così facile, elementare da rispettare? Si chiede a Orfeo amante di non guardare l’amata, si chiede a Orfeo di amare senza conoscere. Ma la scissione di amore e conoscenza non è possibile: è appunto questo il paradosso che segna anche l’esito tragico, l’ epilogo di questo viaggio. L’aveva capito benissimo il grande C. Miloz che nella sua Orfeo e Euridice scrive, facendo luce sull’anima di Orfeo dopo la perdita definitiva:“Ma l’erba profumava, ronzavano basse le api./E si addormentò, con la guancia sulla tiepida terra.” Altre interpretazioni e risposte saranno significative, come quella di C. Pavese: Orfeo pensava a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? …Allora disse ‘sia finita’ e si voltò’. Qui c’è valutazione razionale: c’è sospetto, debolezza, timore, rifiuto. Un calcolo consapevole. Una consapevolezza come quella di cui ci parla Rainer Maria Rilke. Euridice risale…” Raccolta in sè e come trasognata,/ non pensava a colui che le era innanzi,/ nè alla strada su verso la vita. Era raccolta in sè, e la impregnava/ il suo stato di morte. .. Ella era già radice.” E Orfeo capì e si voltò. E quando all’improvviso/ il dio la fermò e con dolore/ pronunciò le parole: Si è voltato!-, lei non comprese e disse piano: Chi?. Orfeo è uscito dal mito. “Chi ha perduto me, sventurata, e te Orfeo?” L’inferno è il mondo del fuori, del suono, del rumore, della superficie, contro cui i nostri sforzi nulla hanno valso, e che ci ha derubato dei sogni, dell’amore, della vita. Gli dei del fuori e dell’aria rarefatta hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta. Ecco perché è eterno il mito di Orfeo ed Euridice.

Giulia Bagnoli
Orfeo ha osato sfidare la morte e la sua mancanza di fiducia è l’inizio della dannazione. Euridice rimarrà per sempre lì, nell’ombra, forse desiderando di nuovo la luce, la vita, ma senza ricordi. La morte vera è proprio nell’assenza di memoria.

Aretusa Obliviosa
All’orecchio di chiunque ami c’è una parola, in questa lirica, che suona terribile, scandalosa, intollerabile, ed è quel “chi” posto a fine di verso nella versione italiana (non conosco il tedesco, purtroppo), oltre il quale sembra calare il gelo assieme al silenzio. A nulla valgono i versi precedenti: nonostante Euridice venga descritta ormai come una entità lieve, che non ha più niente di umano, aldilà della soglia della vita per essere con la morte, il mancato riconoscimento di Orfeo risulta inevitabilmente inaccettabile per il lettore che con lo stesso amante si identifichi. E in effetti non altro che senso di morte e sgomento prova in cuor suo ogni persona che amando si senta improvvisamente rifiutata. Rilke riesce con il suo genio e la sua ispirazione a dire tutto questo e molto di più. Basti pensare al continuo oscillare fra vita e morte, centrale in questa lirica così come nella poetica stessa dell’autore e alla serie di antinomie che ne scaturiscono: la gravità contro la levità, l’impazienza contro l’incerta mitezza, la percezione dei sensi contro l’intangibilità. La visione rilkiana dell’aldilà e più in generale dell’ignoto che da qui scaturisce mi pare in conclusione del tutto negativa: se è all’insegna della mitezza per un’ancora inconsapevole Euridice appena iniziata alla dimensione della morte, per il lettore essa risulta indissolubilmente legata all’arcano, al tenebroso, a scenari spettrali connotati da vuoti abissi e dall’assenza di ogni nota di colore, fatta eccezione per un onnipresente grigio che tuttalpiù finisce con lo sbiancare in una tavolozza monocromatica sempre più scialba. Eppure ancora molto resterebbe da dire, a proposito, per esempio, di una poesia che, seppur modernissima, sembra voler recuperare nell’essenzialità e purezza lessicale la primigenia dimensione epica dell’oralità. Ma è un’epica quella rilkiana scevra di valori da proporre o da insegnare, connotata piuttosto da un senso di angoscia che sembra permeare ogni molecola dell’esistente ed aleggiare ovunque, fino a divenire, almeno per me, indiscussa novecentesca protagonista in molte pagine dell’autore.
Ma mi rendo conto che potrei continuare a spendere parole e che Rilke resterebbe comunque molto più di quanto detto.

Laura Diafani
Che bella la reinterpretazione, rovesciata in fondo, del mito: l’esser riportata alla vita come un male non ambito, la morte come condizione “intatta”, “vergine” (vengono in mente gli aggettivi che tributa Leopardi alla luna nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”), “lieve”.

framo
Assieme al ritrarsi fatale sia di Euridice (resasi irreversibilmente “intangibile”) sia di Orfeo (fattosi “scuro”, “irriconoscibile” e immobile) a cosa approda questa mirabile full immersion nell’esperienza straniante della perdita irrevocabile (di sè, del mondo conosciuto ed esperito, dei suoi elementi più consueti e condivisi)? Come sempre in Rilke il percorso si fa meta. In un processo di continua metamorfosi – in cui mondi, soggetto, oggetto e attributi compenetrandosi si “sfigurano” e sfigurano -, dalla soglia dell'”uscita chiara” di questo viaggio al cuore della tragedia, non più impaziente, fa ingresso lo sguardo del postOrfeo rilkiano, reso ormai “mite” dal passo turbato della morte; e con esso un modello insuperabile di poesia che, esortando a “mescolare (i morti) a ogni cosa veduta”, riesce a “rendere vero” l’incanto di ogni immagine creata e/o ricreata (Dai “Sonetti a Orfeo” – I,6). A novant’anni dalla morte, Rilke, incontrovertibilmente il più grande. Grazie.


Virgilio in primis e poi autori come Pavese, Vecchioni si sono soffermati sullo sguardo di Orfeo e sul perché si sia voltato, pur sapendo a quale conseguenza sarebbe andato incontro. Rilke, invece, offre una diversa prospettiva, quella di Euridice. La giovane sposa di Orfeo procede “incerta, mite e senza impazienza” la strada che porta “su verso la vita”. A differenza dell’uomo, Euridice non è di passaggio nella dimensione abissale degli Inferi, anzi, ormai ne fa concretamente parte, ne è “radice”. Non le interessa più tornare a vivere, ad amare perché la sua vita l’ha già vissuta. Per questo sembra non comprendere le parole di Ermes che le rivelano che Orfeo non ha mantenuto fede alla promessa e, quasi indifferente, anche lei si volta indietro per tornare eternamente nella “miniera delle anime”.

tristan51
Un altro capolavoro. Ma in Rilke il capolavoro non è una dimensione inattingibile o una rara eccellenza. La sua opera abbonda di capolavori, fa del capolavoro una regola.

Paolo Parrini
Quel che colpisce al cuore e resta dentro è l’enorme distanza che c’è tra Orfeo e Euridice, l’appartenere ormai a due piani si distanti e inconciliabili. La crepa tra l’uomo snello in manto azzurro e lei, Euridice che procede incerta ,mite e senza impazienza.La stessa calma che investe dopo la morte,quando tutto tace e i rumori della vita paiono solo echi lontani e incomprensibili. Quando Euridice chiede “chi?” rispondendo al Dio che le dice “si è voltato”, si avverte l’infinita voragine che c’è, da sempre, tra la vita e la morte, così attigue, così del tutto incomprensibili l’una all’altra fino al momento finale, che ognuno attende.

Lorenzo Dini
Il mito di Orfeo ed Euridice è rivissuto nel segno del sesso opposto, ed è attraverso la donna che Rilke  sublima quel confronto sul sottile limine fra la vita, amore e morte. Così, tanto risulta drammatico quel “Chi” pronunciato alle soglie dell’Ade, tanto maggiore risulta la distanza, ormai incolmabile, fra le “due cose belle”.

Seguici anche sulla Pagina Facebook del Premio Letterario Castelfiorentino
e sulla pagina personale https://www.facebook.com/profile.php?id=100012327221127

ARCHIVIO POST PRECEDENTI

Le ultime NOTIZIE DI POESIA

NOTIZIE DI POESIA 2012 , NOTIZIE DI POESIA 2013 , NOTIZIE DI POESIA 2014 , NOTIZIE DI POESIA 2015 , NOTIZIE DI POESIA 2016 NOTIZIE DI POESIA 2017