VEDI I VIDEO Perché leggere, perché scrivere , “Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggiere” di Ermanno Olmi, dalle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, (1954) , “Filastrocca di Capodanno” di Gianni Rodari

Firenze, 31 dicembre 2017 – Cari amici, eccovi come da tradizione, per ricordare il 2017 trascorso insieme e festeggiare il 2018 in arrivo, un ampio florilegio di quanto avete scritto nel corso dell’anno a commento dei post apparsi giorno dopo giorno in queste Notizie! Un mosaico citazionale che viene liberamente a configurarsi come un suggestivo testo unico a più mani, una sorta di commento dei commenti del nostro blog!

Evviva dunque, e auguri cordialissimi! Che il 2018 sia per tutti voi, come anche l’anno scorso abbiamo augurato, un anno pieno di gioia e serenità! Sempre in viaggio, soli e insieme, fiduciosi pellegrini delle poesia, come l’opera di Pietro Paolo Tarasco, che anche quest’anno illustra questo post, suggerisce!

E ancora auguri, auguri di cuore anche con questa propiziatoria, svagata e in fin dei conti saggiamente ragionevole filastrocca di Gianni Rodari che dice:

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

A domani!

Marco Marchi

I COMMENTI PIU’ BELLI DEL 2017

GIACOMO TRINCI

Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno.Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossessamento corporeo e mentale.

Il danno barbarico, il dente incivile, intride il corpo della poesia “civile”, in questi anni di incipiente neocapitalismo italiano. Questo sente il Pasolini poeta all’esordio degli anni sessanta, in una raccolta che declina la forma della poesia ‘logica’, raziocinante, foscoliana, delle “Ceneri” in un dettato ormai che si appresta a scoprire nervature che ne screpolano e corrodono la “bella forma” petrarchesca-leopardiana, che ancora costituiva il carattere della poesia precedente. Ecco, quindi, in quel folgorante finale della poesia “Alla mia nazione”, il “mare/male” che formano la rima interna, e che con la parola “mondo” sigillano l’epigramma in modo definitivo, secco, a definire il sintomo di una metastasi culturale e politica che esploderà in quegli anni e continuerà in seguito, in maniera più evidente e forte. Il continuo trasformarsi della forma della poesia, magistralmente letto e interpretato nella saggistica di Marco Marchi dedicata all’opera di Pasolini, trova qui un punto decisivo di modulazione: la poesia non sarà più da questo momento riconoscibile nelle sue forme consuete, ma assumerà vesti prosaiche, magmatiche, cinematografiche, saggistiche, giornalistiche…Il magistero poetico sarà divorato; come il povero corvo marxista, sarà divorato in “salsa piccante dal “dopostoria” neocapitalistico.

FRAMO

Per l’uomo “è sempre mondo / e mai non-luogo senza non: il puro, / incustodito, che si respira,/ si sa infinitamente e non si brama.” Ci è preclusa la via verso il nucleo della nostra natura, la scoperta della nostra autenticità più piena. Strappati per sempre dal grembo, in quanto esseri coscienti, fin da quando siamo stati educati ad essere tali ci è impossibile non sperimentare il senso del limite e dell’ostacolo, condizionati come siamo dal peso del ricordo, dall’ombra della nostra vulnerabilità – inscritta entro un destino di visione schermata, frontale o retrospettiva del reale e degli altri esseri – e da una percezione di inesorabile incombenza in merito alla nostra morte. Vano tentare di dare ordine a un mondo che si frantuma e ci frantuma; non possiamo far altro che prendere atto che nella miseria del nostro essere noi viviamo incessantemente la condizione di prendere commiato. Davvero un magnifico canto della tristezza questa Ottava Elegia. Sempre immenso il nostro amato Rilke.

Chi meglio del buon vecchio Charles, con i versi tratti dall’ultima raccolta, “Il grande”, saprebbe replicare mettendo ko l’ennesimo tentativo di attacco da parte del detrattore di turno: “… e se avessero giustiziato Dostoevskij? / prima che scrivesse tutto quanto? / suppongo che non sarebbe cambiato niente / non nell’ immediato. / … ma quando ero giovane so che lui / mi ha fatto tirare avanti nelle fabbriche, … / mi ha fatto volare nella notte / e mi ha deposto / in un luogo / migliore. / persino mentre ero al bar / a bere con gli altri / derelitti, / ero contento che avessero concesso a Dostoevskij la vita, / questo l’ha concessa anche a me, / mi ha permesso di guardare dritto in faccia quei volti rancidi / che popolavano il mio mondo, / la morte che punta il dito, / ho tenuto duro, / io, un candido ubriacone / che condividevo l’oscurità ripugnante con i / miei / fratelli”. A chi non conosce il privilegio di poter scegliere di navigare in acque più o meno tanquille e “illuminate” la lettura della poesia amica di Bukowski può presentarsi come la scialuppa relitta che fa la differenza tra salvataggio e morte spirituale certa. Buon compleanno Charles “Il grande”.

ARETUSA OBLIVIOSA

All’orecchio di chiunque ami c’è una parola, in questa lirica, che suona terribile, scandalosa, intollerabile, ed è quel “chi” posto a fine di verso nella versione italiana (non conosco il tedesco, purtroppo), oltre il quale sembra calare il gelo assieme al silenzio. A nulla valgono i versi precedenti: nonostante Euridice venga descritta ormai come una entità lieve, che non ha più niente di umano, aldilà della soglia della vita per essere con la morte, il mancato riconoscimento di Orfeo risulta inevitabilmente inaccettabile per il lettore che con lo stesso amante si identifichi. E in effetti non altro che senso di morte e sgomento prova in cuor suo ogni persona che amando si senta improvvisamente rifiutata.
Rilke riesce con il suo genio e la sua ispirazione a dire tutto questo e molto di più. Basti pensare al continuo oscillare fra vita e morte, centrale in questa lirica così come nella poetica stessa dell’autore e alla serie di antinomie che ne scaturiscono: la gravità contro la levità, l’impazienza contro l’incerta mitezza, la percezione dei sensi contro l’intangibilità. La visione rilkiana dell’aldilà e più in generale dell’ignoto che da qui scaturisce mi pare in conclusione del tutto negativa: se è all’insegna della mitezza per un’ancora inconsapevole Euridice appena iniziata alla dimensione della morte, per il lettore essa risulta indissolubilmente legata all’arcano, al tenebroso, a scenari spettrali connotati da vuoti abissi e dall’assenza di ogni nota di colore, fatta eccezione per un onnipresente grigio che tuttalpiù finisce con lo sbiancare in una tavolozza monocromatica sempre più scialba. Eppure ancora molto resterebbe da dire, a proposito, per esempio, di una poesia che, seppur modernissima, sembra voler recuperare nell’essenzialità e purezza lessicale la primigenia dimensione epica dell’oralità. Ma è un’epica quella rilkiana scevra di valori da proporre o da insegnare, connotata piuttosto da un senso di angoscia che sembra permeare ogni molecola dell’esistente ed aleggiare ovunque, fino a divenire, almeno per me, indiscussa novecentesca protagonista in molte pagine dell’autore.
Ma mi rendo conto che potrei continuare a spendere parole e che Rilke resterebbe comunque molto più di quanto detto.

La prima parte della poesia sembra una rivisitazione in chiave novecentesca della “Quiete dopo la tempesta”. E davvero Leopardi non è mai sembrato tanto ottimista. La lezione del recanatese la sento viva fin dalla scelta lessicale e dalla sfera semantica della vaghezza. Mi riferisco ai “rari uomini, quasi immoti”, a “invisibile”, dove però il vago si va progressivamente connotando come assenza di vita. Si veda la nebulosa “fuliggine” anticipatrice di una “primavera inerte, senza memoria”. La strada verso un’inquietudine tutta novecentesca e storicamente connotata (se si pensa al ventennio che si concluderà con la guerra) è ormai sbaragliata. E significativo è il fatto che la “vita” trovi le sue coordinate nell’antico, unica dimensione del possibile, in quella “dolce ansietà d’Oriente” dove le parole di Dora, o forse la parola stessa ritrova un senso nella non ancora perduta facoltà di iridare, propria di una “triglia moribonda” ma pur sempre viva. Con essa, nella sua lotta, nella sua irrequietudine, la protagonista sembra quasi identificarsi. Si procede dunque quasi per associazioni. E trovo perfettamente calzante la similitudine del volo accidentato degli uccelli di passo nelle “sere tempestose” che torna – a me almeno così pare – a coniugarsi con il lessico leopardiano. Ma l’hinc et nunc non è la quiete, condizione a posteriori rispetto alla tempesta, ma una vera e propria cinetica della dolcezza, che per poter esistere (o resistere?) deve turbinare, in una disperata guerra contro l’inerzia della morte. Forse proprio nell’incessante vorticoso turbinio di questa guerra, nel non arrestarsi un attimo sta la risposta cercata dal poeta. Forse il lago di indifferenza è uno strato gelato solo in superficie, ma quanto mai agitato in profondità. Forse. Ma è un’energia quella che fa resistere Dora che solo in un topo bianco d’avorio, amuleto della salvezza, trova ragion d’essere. Essere ed esistere, appunto; secondo ritrovati connubi novecenteschi, connotabili come ormai collaudati vade mecum di resistenza da contrapporre a contingenze di precarietà, a tempi di incertezze difficilmente decifrabili. Nella seconda parte il lessico si fa più dannunziano (“mirti”, “tigli”, “irti”), in una mediterranea Carinzia dove l’esistenza ritrova i ritmi distesi di una più svagata quotidianità. Condizione questa tuttavia ritrovabile per accensioni ed avvampi, e non persistente. La sera sopraggiunge infatti impietosa e accompagnata da quasi lugubri gemiti che evocano un passato in cui ci si riflette come in uno specchio annerito. E lo specchio rimanda “errori imperturbati”, in cui viene quindi meno il salvifico turbinio che nella prima parte si preannunciava. Di rassicurante sembra rimanere solo una leggenda, impressa nelle tessere di un mosaico profumate d’Oriente e appartenente però alla dimensione di un passato remoto e di una geografia della distanza che vede la sua stella polare in una Ravenna ormai lontana. Unico appiglio per una salvezza da ancorare allora al solo presente è il tradizionalmente nobile alloro, ridotto alla confortante misura domestica di pianticella aromatica da tenere in cucina, ennesimo benefico amuleto nonché antidoto contro un passato prossimo che continua a distillare veleno, contro l’ombra prepotente di una fede feroce alla quale per resistere non si può tornare a pensare.

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Fin dagli anni friulani che avrebbero condotto alla “scoperta di Marx” il richiamo sociale si impone in Pasolini come un richiamo d’amore: un’allargata apertura relazionale di tipo collettivo, dialogica e comunicativa, provata anche per via genealogico-familiare dall’interessante episodio epico-drammaturgico dei “Turcs tal Friùl”, maggio 1944. Il testo inaugura peraltro – davvero tra “passione” e “ideologia”, “cuore” e “buie viscere” – l’arduo appannaggio partecipativo a quella vasta ed indivisa comunità di vivi e morti, qui anche storiograficamente certificabile, che la pratica della poesia autorizza: l’ingresso in una inedita dimensione tra spazio e tempo, orizzontalità e verticalità, estensione e affondi sul corpo e sull’anima dell’umano.

Una poetessa come Florbela Espanca pressoché del tutto sconosciuta in Italia! Anche YouTube testimonia dello stato delle cose qui da noi… E pensare che un suo traduttore e studioso antico è stato Guido Battelli, che nel 1934, a seguito di una discussione con il collega Eugénio Castro e stanco degli intrighi dei colleghi universitari a Coimbra, decise di lasciare il Portogallo per tornare in Italia, dove si impegnò nel tradurre e diffondere il lavoro di Florbela Espanca e di altri poeti portoghesi.

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Esenin ci regala con questi versi una sensazione di angoscia profonda, ci dona il suo dolore e noi che lo leggiamo riusciamo a vederlo. La vita lo abbandona, giovane e tragico, le sue parole incarnano la forza dei più grandi poeti russi, e lui ci parla del suo uomo nero, come un segugio, come un assassino, come un’ombra sgradita e nefasta che lo segue e lo tormenta. La sua espressività, così cruda e reale, a tratti grottesca, lascia nel lettore il sapore della morte e della fragilità dell’esistenza umana.

Inquietudine e tormento nella Pasqua che ci mostra Zanzotto, non immagini di vita ma di dolore e fatica: il vento, il sale, l’agnello flagellato, la neve, rimandano ad una sofferenza universale, che accomuna tutti gli uomini. Un’opera poetica quasi drammatica che oltre alla forza delle parole stimola una riflessione sulla condizione umana tristemente attuale.

DUCCIO MUGNAI

Ancora una straordinaria scrittura poetica di Kostantinos Kavafis, soprattutto se assaporata in lingua greca. Stavolta è l’amore folgorante nell’accadimento dell’attimo incomparabile. Una sostanza lirica attualissima, vivida nella complessità di temi che si intrecciano tra di loro; l’attrazione carnale del corpo, a cui dà spessore, invenzione e decifrazione del mistero, il confronto istantaneo e culturale con la statuaria classica, la bellezza sublime, in stato di calma apparente, mentre già fiammeggiano le passioni umane che sconvolgono, ogni volta che mettono in relazione pura oggettività ed osservazione: “[…] E vidi, allora, lo stupendo corpo, / dove di sé faceva maggior prova Amore: / vi plasmava gioioso acconce membra, / innalzava, scolpita, la persona, / con emozione vi plasmava il viso, / del suo tratto lasciando come un arcano senso / sulla fronte, sugli occhi, sulla bocca.”.

David Maria Turoldo! Quante vite ha avuto, tutte però alla luce di una concezione dell’esistenza come servizio dei poveri e della verità. Tante città hanno conosciuto il suo impegno, spesso anche di matrice polemica. Quando ero ragazzo e non lo conoscevo, ricordo la sua “strana” figura sul tram a Firenze, nella zona della Santissima Annunziata dei Servi di Maria. Ricordo che, da ragazzaccio, me ne prendevo gioco. Quanto dolore mi dà questo ricordo! Poi capii la sua profonda umanità, il concepire Dio da un punto di vista fortemente incarnazionistico e la sua generosità nel vivere. A volte magari sbagliando, ma non si risparmiava. Ed anche se non era più la Firenze di La Pira, don Milani, Divo Barsotti, Ernesto Balducci, la sua testimonianza rimaneva incredibilmente vera e aperta al dialogo. Così, anche se la sua poesia spesso è stata accusata di mancanza di “labor limae”, mi piace ricordare come anche Carlo Bo lo apprezzasse molto, mi piace ricordare la sua attività continua avendo Dio come unico punto di riferimento, in modo tale da “cantare i silenzi dell’alba / chiamare le genti sulle porte, / e salutare il giorno: / e dare speranza agli umili / e dire insieme la preghiera / del pane che basti per oggi: /allora anche i poveri ne avranno d’avanzo. / Amen.”. E meravigliosa, secondo me, è la sua registrazione poetica dell’appressarsi della morte: “Amici, mi sento / come un tino bollente / di mosto dopo / felice vendemmia: // in attesa di travaso // già potata è la vite / per nuova vendemmia”.

Capolavoro luziano che ci mette in relazione non solo con la bellezza del mondo dell’arte, di cui Adonis è grande portavoce, ma anche con la tradizione letteraria italiana. Ravviso in questa poesia, “A mia madre dalla sua casa”, sia l’impatto umano e profondamente religioso della lirica ungarettiana “La Madre”, sia la solitudine leopardiana e le sue macerate e intimissime meditazioni, di cui solo il recanatese era capace, oltretutto servendosi della semplicità degli elementi come “un letto angusto”, “l’erta, il vicolo”, “la porta del tugurio”, o l’onomatopeico binomio “pietre e ciottoli”. Sembra che, attraverso rinnovata e personalizzata tecnica, lo spirito umanissimo di “La sera del dì di festa” ancora ci parli da una prospettiva diversa, calandoci sempre in un’inevitabile e drammatica appartenenza cronologica e storico-sociale.

ISOLA DIFEDERIGO

Un falco prigioniero in cerca della luce e della vita, un’aquila senza più libertà di volo: non è difficile intuire dietro queste figure dolorosamente svuotate della loro fierezza araldica la presenza dello scrittore, la sua anima nera, la sua angoscia mortale non più debitamente assistita dalle occorrenze della scrittura. Ma Loria, anche il Loria post-solariano divenuto sempre più estraneo a se stesso, alle sue sorprendenti allegorie narrative del disagio di vivere, resta uno scrittore importante, un finissimo conoscitore della “ambigua natura” del cuore umano dotato di mezzi eccezionalmente adeguati a rappresentarla: un classico moderno tutto da riscoprire.

Provinciale ed europeo, antico e moderno, espressionista e primitivo, Tozzi nasce scrittore fino dalle primissime prove in versi e in prosa. Le immagini a cui affida la sua visione tragica della realtà, il dolore di esistere di un’anima che vorrebbe spiccare il volo, sono immagini predefinite, inizialmente in cerca di una loro compiuta formalizzazione. Come l’immagine dell’“uccello nero” che aleggia nei versi di “Maiolica dipinta”, ancora tra Dante, Leopardi e D’Annunzio, e torna come un segnale perturbatore nelle pagine del “Podere”, quando il robusto realismo della rappresentazione e la tensione lirica che l’attraversa daranno ragione della lucida e sbaragliante forza espressiva conseguita da uno scrittore unico e irripetibile.

LORENZO DINI

Poesia magnifica dove la naturalezza dell’elegia della vita quotidiana, il fantastico ricordo della madre e la famosa “cantabilità”di Caproni, tre fra gli elementi più accattivanti del poeta, raggiungono risultati sorprendenti. Significativa la citazione della canzone popolare “paloma blanca”: essa costituisce un esempio di mise en abyme, infatti la colomba bianca della canzone, inviata all’amata, in questa poesia è mandata dalla madre a consolare il poeta (posandosi sulla sua “stanca / spalla”), come anticipando, ribaltandolo, il motivo di “Preghiera” del “Seme del Piangere”. Inoltre sembra che quando Caproni subisca la perdita di una persona particolarmente cara, egli senta il bisogno di supportare il testo facendo ricorso o a canzoni popolari, o a testi classici radicati nella tradizione; è il caso di “Ultima preghiera” che rimanda alla ballata cavalcantiana, o per la morte del fratello Piero: la poesia “Atque in perpetuum frater” fa chiaro riferimento al carme 101 di Catullo.

Il mito di Orfeo ed Euridice è rivissuto nel segno del sesso opposto, ed è attraverso la donna che Rilke sublima quel confronto sul sottile limine fra la vita, amore e morte. Così, tanto risulta drammatico quel “Chi” pronunciato alle soglie dell’Ade, tanto maggiore risulta la distanza, ormai incolmabile, fra le “due cose belle”.

ANGELO FERRARA

Ho sentito parlare per la prima volta di Eliot quando frequentavo il liceo e durante il mio percorso universitario, mi sono imbattuto nuovamente in lui. Eliot è stato uno dei massimi esponenti della letteratura inglese, un outsider, così definito dalla critica. È un uomo che si sente vuoto, quanto la società che lo circonda, che descrive come soffocante e a tratti fumosa. Nei suoi versi, si denota una stanchezza derivante da domande destinate a vagare senza risposta e da riflessioni continue, una sorta di crisi esistenziale che l’affliggeva da sempre e di cui non si è mai riuscito a liberare. Ho avuto la fortuna di leggerlo sia in lingua originale, sia in italiano e devo dire che è un autore difficile da comprendere per via dei suoi continui simbolismi e per il suo stile a volte oscuro. Era senza ombra di dubbio un uomo di grande cultura, dallo stile impeccabile, accattivante e raffinato, nonostante dia filo da torcere nel momento in cui lo si legge. A tratti è terribilmente disarmante, sembra quasi che non dia via di scampo con la sua pungente verità poiché nelle sue pagine è possibile scorgere la “desolata” vita dell’uomo moderno. È pur sempre il premio Nobel per la letteratura 1948.

ANTONIETTA PURI

L’anima si fa manifesta quando la mente umana tace e nel profondo sé regna il silenzio; o quando, volutamente, l’essere la innalza fino ad altezze inesplorate per poter guardare in basso con distacco nell’intento di intravedere un “disegno” e, contemplando il nulla, intuisce in un lampo che quel “vuoto” è il tutto di cui egli è parte. E, consapevole di se stesso, vive per un attimo l’ebbrezza dell’estasi: esperienza riservata a pochi eletti o, credo, al bambini, che non ne sono però consapevoli, forse… Grandissima Dickinson, poetessa colta e raffinata, fata, esperta in estasi, misteriosa, credente e dubbiosa, visionaria, appassionata, mistica, sensuale e… grazie per averla ancora una volta scelta.

Fa quasi bene all’anima – quell’anima di cui il poeta a volte parla, pur come concetto non definibile – sentire che l’angoscia atavica, connaturata nell’uomo Pessoa (o Alvaro de Campos, se vogliamo) si liquefa e trabocca in lacrime ed in emozioni che lo fanno impazzire per la propria incapacità di comprenderle e di gestirle, forse per il suo modo di vivere, dissociato tra notte e giorno, veglia e sonno, lucidità e follia, bisogno di essere compreso e desiderio di improntare la propria vita al mistero, tra visioni metafisiche e cadute abissali. L’angoscia di Pessoa è generata da un disgregamento spirituale, da un suo slancio verso l’assoluto, senza mai toccarlo, dai suoi numerosi disagi dei quali è consapevole…e tuttavia vi si lascia completamente andare, dalla nostalgia per l’infanzia perduta, dalle disillusioni amorose e poetiche, dalla sua irresolutezza e incapacità di agire…, ma soprattutto dall’assenza di redenzione, con l’impossibilità e l’esigenza di un feticcio qualunque cui aggrapparsi…Ma nonostante il suo palese autocompiacimento per i propri vaneggiamenti e questa sorta di autocommiserazione (ma forse proprio per questo), c’è nello strabiliante poeta che amo tantissimo un potente slancio lirico…e i suoi voli riescono a salire veramente in alto…

MATTEO MAZZONE

Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al maturo “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – che solo nella vita ma amato dai colleghi ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Uno Zanzotto d’esordio è quello puro e casto di “Dietro il paesaggio”, dove il legame colla tradizione novecentesca e la presenza di un’eco ermetica agiscono insieme in questa prima raccolta poetica. Ancora montalianamente antisperimentalista, ma descriptor degli eventi, dei loro paesaggi e dei vari disguidi umani, in Zanzotto trionfa una parola calda e dolce, propria degli schemi dell’elegia classica. La prima morfologia poetica zanzottiana si muove per immagini, per nitori talvolta umbratili (ed il “Dietro” del titolo è avverbio significativamente esplicito) talvolta splendenti fulgori: ed in queste immagini si muove silenziosamente un io indagatore scisso e sottratto a sé stesso, in cerca di un rifugio, di una protezione infantile. L’io dell’incertezza, dunque, che cerca una possibile, nuova quanto sicura comunicazione con il mondo.

ELISABETTA BIONDI DELLA SDRISCIA

Il poeta è scrittore di sogni che i libri tramandano affinché si rinnovino attraverso altre vite: e se il sogno è impalpabile istante, è istante prezioso e insostituibile che da’ ragione a una vita. Al motivo della caducità della vita/sogno, che ha i suoi modelli più alti in Pindaro – “sogno di un’ombra è l’uomo” – e in Shakespeare – “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è conclusa da un sonno” – Borges lega indissolubilmente il tema fondante e eterno dell’Amore, in una mise en abyme vertiginosa che attraversa diacronicamente la letteratura occidentale rendendo omaggio assoluto al Poeta Sommo, “l’eccelso”.

L’Arno e la sua foce in questi versi dannunziani, in un’istantanea in cui la natura e il suo fascino estivo trasmettono al lettore paniche sensazioni di armonia e di bellezza. Versi straordinari, di limpida classicità; una composizione che si chiude circolarmente sul suo inizio, un orgoglioso riallacciarsi alla grande tradizione poetica italiana – soprattutto Leopardi e poi Dante, ma anche Foscolo -: è il canto dell’Estate e dell’Amore, un amore vissuto in armonia con la natura. E la figura femminile appena accennata è l’essenza del femminile, donna concreta e eterno femminino, di cui conosciamo soltanto l’azzurro delicato della pelle e l’incantevole riso.

PIETRO PAOLO TARASCO

E’ stata la poesia “Alla vita” quella che più di tutte mi ha dato la linfa creativa per “idealizzare benignamente” l’opera “A Mario Luzi – Alla vita”. Il Poeta si adagia con il suo corpo sulla sua tanto cara ed amata terra Toscana. Sui suoi scarmigliati capelli, una barca “…e dondola nella luce dove il cielo s’inarca e tocca il mare…”. La barca è posta sulla parte più alta ed è di lì che “…si vede il mondo…” tra terra, cielo e mare dove la nostra fragilità è sempre presente.

In un “universo schiacciato” come quello che l’opera di Tozzi ci propone è inevitabile ravvisarvi un forte anelito alla leggerezza, alla liberazione dai vincoli della pesantezza avvertita come una inesorabile condanna: il desiderio di un’anima. È così che, invece di rivolgersi ancora una volta alla propria anima incerta perfino della propria esistenza, Tozzi a chiusura di “Bestie” chiede ad una naturale e letterarissima allodola di prendere la sua anima, di farla finalmente volare.

MARIA GRAZIA FERRARIS

Vladimir Vladimirovic Majakovskij, il grande animatore del Futurismo russo. Lirica tipicamente majakovskiana: voce sonante, sopra le righe, nel gioco paradossale delle antitesi: piccolo come il grande oceano/ povero come un miliardario/silenzioso come l’umil tuono/ balbuziente come Dante o Petrarca… grande e inutile. In realtà un discorso sulla poesia che riflette su se stessa, sul suo destino e sulla girandola delle metafore che l’accompagnano, sull’ iperbolico uso dell’ossimoro. Anche per lui la delusione storica fu inevitabile a tanta baldanza e fiducia rivoluzionaria, preludio alla sua fatale <resa> con il canto A piena voce, dedicato ai posteri, che rappresenta il suo congedo orgoglioso dalla vita e dalle illusioni, ma nessuno saprà come lui con sincerità disarmante costruire un canto così puro e assoluto per l’ideale rivoluzionario, ideale del quale sarà lui stesso vittima predestinata. Nella sua dimensione urlata, come in A tutta voce ripropone qui una poesia drammaticamente sincera e presaga: “dove mi è apprestata una tana?”. Non gli sarà apprestata, come sappiamo.

Luzi, Simone Martini, Mario Francesconi e i suoi infiniti ritratti… la mediazione critica di M. Marchi: una presentazione così suggestiva ed esaustiva da portarci in toto nell’itinerario spirituale di Luzi, un Luzi smaterializzato, spirito, Arte, illuminato con leggerezza con semplici ed essenziali tratti grafici, stilizzati e temi anche biografici. Una ricerca tra le arti che si rispondono e si amplificano : «Non lasciare deserti i miei giardini / d’azzurro, di turchese, / d’oro, di variopinte lacche …” : il poeta pare inseguire nella pittura di Duccio o di Simone Martini la «povertà di cuore» insita nell’uomo, la conoscenza che non si presenta mai come acquisizione definitiva, concludente e conclusiva. Il confine tra poesia e preghiera è talvolta così labile da potersi difficilmente riconoscere, come negli Inni sacri di Manzoni, o nella poesia di Dante. E la parola poetica tende via via a farsi limpida, rarefatta, senza rinunciare alla concretezza. È un viaggio tra cielo e terra – come nel Simone Martini – con continui ritorni e continue soste. La tensione è verso la luce che elimina i colori, che trasporta tendenzialmente le cose su di un piano prossimo alla metafisica, alla pronuncia diretta dell’essenza. Ma rimane tuttavia arte, non si fa discorso imprendibile, attua una continua rifondazione di esistenza letteraria: trasparente, fragile e sensibile. La poesia orgogliosamente non vuole essere vaniloquio, la parola poetica non vuole ricadere su sé stessa: “Non fare che la mia opera/ ricada su se medesima, / diventi vaniloquio, colpa.”

VALENTINA FIUME

Una straordinaria poesia… tra le più belle di Eugenio Montale, a mio parere… un testo che rivela come la vita sia un vetro smerigliato di coincidenze, di incontri mancati, di fughe, di arrivi inattesi. E inoltre racconta una nekyia…una discesa agli inferi con una presenza/assenza. Quella kore (pupilla) che fa luce. Ma resta il rintocco vuoto dello scalino… l’horror vacui…t remendamente affascinante. E come diceva la poetessa Helle Busacca, amica insieme a Sara Virgillito di Eugenio Montale…: “eravamo mortalmente innamorate io e Sara e mortalmente Montale diceva per noi tutto quello che avremmo potuto dire”.

CHIARA SCIDONE

Sono particolarmente affezionata a Palazzeschi. Ho conosciuto e letto alcuni dei suoi romanzi facendo un esame per l’università. Uno scrittore, una personalità unica, divertente e originale, una perla del novecento italiano. La mia poesia preferita è “i fiori” immorale ma in chiave comica, la trovo geniale. Non solo un grande poeta ma anche un bravissimo scrittore. Avendo letto alcuni suoi romanzi posso dire che in ogni sua opera c’è un pezzo di sé, un qualcosa di autobiografico, a partire da riflessi, fino all’ interrogatorio della contessa Maria, meno conosciuto ma uno dei miei favoriti. Mi auguro che altre persone, che come me, non lo conoscevano, possano venirne a conoscenza e appassionarsi.
E infine come poteva non piacermi un autore che ha pubblicato le prime opere con editore Cesare Blanc (il suo gatto :)). Buon compleanno Palazzeschi!

PAOLO PARRINI

Montale in questa poesia cerca e trova nel girasole e nelle sensazioni che ne derivano l’oggetto per esprimere una emozione,un sentimento di eterno, quasi oltre la realtà, qualcosa che lo avvicina al concetto di correlativo oggettivo di Eliot. La poesia è pervasa tutta dalla ricerca di un varco alla rete che stringe la vita dell’uomo, alternata nella seconda quartina al senso montaliano della amara meraviglia verso la vita e il destino. Alla fine il girasole è quasi simbolo mistico, essenza, alla quale il poeta chiede una sorta di Illuminazione, un appagamento della sua brama di infinito…”portami il girasole impazzito di luce.” Brama che pervade tutta la sua poetica, anche seguente,fino “al varco”, intravisto per un attimo ne “La casa dei doganieri” e poi disparso, beffardo.

Pascoli e la sua sensibilità estrema, la sua eleganza il suo susseguirsi di immagini e di sensazioni rese superbamente. Pascoli e il tema ricorrente della morte, quasi un’ossessione per lui che aveva perso il padre e due fratelli molto presto.Anche in questa celeberrima poesia l’inizio quieto, morbido, illusorio di una specie di primavera inattesa, è preludio al susseguirsi di immagini negative, “secco il pruno”, “stecchite le piante”, che hanno un senso di morte incombente. La parvenza di estate si rivela essere alla fine “l’estate ,fredda dei morti”, quella breve parentesi di tepore detta estate di San Martino. Colpisce l’attualità estrema del Poeta, la sua ansia del perduto nido il tema ossessivo della morte,eterni dilemmi dell’animo umano.

M

Questo Pinocchio di Giacomo Trinci è da brividi: smagliante riprova che la poesia, cioè l’invenzione, non è morta. Invenzione ancora più stupefacente perché muove da un testo esistente e famoso, proprio come faceva la Divina Mimesis di Pasolini. C’è arte e c’è fantasia, lavor di lima e lampo di genio, ma non solo. Certo si tratta di un omaggio a Pinocchio (e a Dante), ma anche di un poema originale e tipicamente “trinciano”: sensibilissimo ma non estenuato, puro e intelligentemente impuro, oscuro e a sorpresa luminoso, magistralmente polito e colto, ma anche antipedantesco e toscanamente ruvido. Nell’editoria non c’è da sperare, evidentemente: ma è una vergogna che un libro così non sia in ogni libreria, curato e pubblicato come si deve. “Full many a flower is born to blush unseen, / And waste its sweetness on the desert air.”

Che capolavoro, questa poesia di Hölderlin… Lieve movimento lirico, impetuosa espansione dei significati. Non per niente è, si può dire, “L’infinito” della letteratura tedesca. E mi piace questa traduzione di Luigi Reitani. Coraggiosamente precisa, sobria, ci dà un’immagine di Hölderlin più giusta, più… filologica.

GIULIA BAGNOLI

Non un girasole qualunque, ma il girasole: ebbrezza che rischiara e rende comprensibili le cose oscure; illuminazione che coglie la realtà profonda delle cose; occhi che vedono e trattengono; bagliore di vita che non svanisce. Il girasole impazzito di luce è in realtà la luce la stessa, la bellezza, l’eternità.

“Che cosa è la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere” (Zibaldone, 17 gennaio 1826) La vita, con il suo fardello da portare, è paragonata alla corsa di un vecchio che scala una montagna, come leggiamo anche in questo passo dello Zibaldone. Il poeta si chiede perché tutti gli animali sono felici tranne l’uomo, che è sempre vittima della noia. Le domande esistenziali dell’uomo sono destinate a rimanere senza risposta, nel silenzio assordante della luna che sembra osservarci indifferente.

LAURA DIAFANI

Che bella interpretazione, questa di Marco Marchi, nel segno di una irriverenza infantile dove “infantile” vuol dire occhio aperto e nuovo sul mondo, un vedere esplorativo non filtrato dagli schemi altrui. Anche in quella prosa memorialistica poi, che sembra zoppicare nel procedere per accumulo, accatastamenti un po’ boccacciani, ma poi torna sempre alla riva dopo averti fatto un giro sintattico inaspettato. Viene in mente il Leopardi di una famosa lettera a Giordani: “vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita”.

ANTONELLA BOTTARI

Siamo alla fine. E’ l’addio di Esenin a se stesso prima ancora che a noi. C’è tutta la sua giovane vita concentrata in un centinaio di versi in un amamlgama di sensazioni e allucinazioni. E’ la resa dei conti con l’immagine di sè, con lo specchio che lo perseguita e pone fine ad ogni inganno. Lo stesso “Uomo Nero” che a pie’ di letto commissiono’ a Mozart il Requiem? Forse. Ci sono momenti di lucida franchezza in questi ultimi versi nei quali il Nostro scava ossessivamente ossessionato ai margini della sua esistenza per raccontarla all’amico – se stesso- come in una visione beffarda e dolente; è l’ennesima intima persuasione che la sua vita , pur nella pienezza in cui l’ha vissuta, è stata uno spreco di lotta contro il suo più acerrimo nemico ( l’alter ego ) e i frantumi in cui poi cadrà ineluttablmente, come lo specchio, ne sono perfetta testimonianza. E’ anche la prima volta che simili versi, così ricchi di immagini e turgidi di pathos approdino alla poesia con tale potenza e lirismo, pur nello sfaldamento intellettuale e ambientale, pur nella dissoluzione e nel vizio: ” Sono malato, sono molto malato…”. Lo scavo nelle proprie nevrotiche allucinazioni, nei sensi di colpa è il senso di una fine cercata con ossessione tra le sfrenate altalenanti passioni che hanno animato la sua breve esistenza. Eppure, quando tutto ebbe inizio, quando egli scopri di sè l’essenza, lo spirito del poeta, tutto sembrava condurlo in un’oasi di pace e di ricognizione paesaggistica degli amati luoghi come in un eterno caleidoscopio di immagini pittoriche che lo avvincevano.Tutta la sua scrittura precedente era forza immaginifica e tangibile dell’arte popolare e dell’epos… Ma la svolta, tragica, “l’uomo nero”, gli riappare come un destino incombente e ineludibile e radica tenacemente, tuffandosi egli stesso, non alla fonte primigenia del verso, ma facendolo trasfigurare nel vizio e nell’oscenità di un fraseggiare non consono ad un poeta, nel senso stretto del termine. Domandarsi quali furono allora gli elementi o i fatti che indussero il Nostro a cambiar rotta, è nel mistero stesso della sua vita,.delle sue passioni, delle sue più intime e sregolate abitudini , nonostante egli abbia versificato anche sul “buono che c’è” comprendendo poi che ciò cui anelava non lo avrebbe mai raggiunto. Eccolo è questo, forse, Esenin, nel dualismo di una mente che si perde e si adombra. Come lo specchio nero, il suo più caro amico, se stesso.

Le parole del Gibbone sono dedicate a Rina, la moglie del poeta, ed è lei, la sua presenza discreta – in epigrafe –, a dominare quel coraggio necessario che serve a Caproni per ammettere chi sia veramente. Qual è il tono in cui vengono dette queste parole sommesse, amorevoli e inesorabili? Se ne mescolano due: il primo ha un andamento lieve, sommesso e il verso si consuma di tempi diluiti che si allargano e diminuiscono e che si alternano, che simulano l’andamento ondivago, variato di una voce parlante che sente il proprio divenire. Le asserzioni sottili del secondo tono pregno di un’evidenza tutta esterna, data al poeta dalla condizione del mondo circostante, hanno invece una sobrietà definitiva, essenziale, che non concede divagazioni; ecco creata una muraglia che stringe di silenzio ma al contempo ci avverte della necessità di una realtà che si manifesterà per sottrazione. La voce si chiude e l’autore abita la frontiera della narrazione dando luogo ad un processo di separazione della realtà che egli vive in limine, cristallizzando il verso in una analisi stringente e struggente.La sua prigionia nasce dal desiderio di coesione, condivisione universale; e allora il mondo interiore diviene l’ alternativa possibile pur con i suoi irrisolti, le sue incompiutezze. La poesia è allora quella promessa che non in altro modo può sopravvivere, e, ciò che essa toglie con la sua cruda obbiettività, dà nell’ esito misterioso di una reazione umana che cerca la vita e i vivi nonostante tutto. È lì, regredendo fino al gibbone, che Caproni ci fa fare un balzo in noi stessi, dal generico individuo, al potenziale biografico di ciascuno.

SABINA C.

Una deliziosa ‘semplicità’ attraversa questo ‘quadretto’, che si nutre di meraviglia e giocoso, fanciullesco stupore. Occhieggia la stella che veglia, rendendo l’atmosfera ancor più evanescente e magica. È un accattivante invito a tuffarsi e immergersi piacevolmente nell’immaginifico mondo della fantasia … senza riserve, con lo slancio ‘incosciente’ di chi osa sfidare l’ingombrante, conformista peso delle asfittiche convenzioni.

Dalla platea ‘L’assolto” assiste divertito alla morbosa curiosità dei presenti, incapaci di dichiarare apertamente i propri malevoli pensieri. Assiste, divertito, a questa “enorme pupazzata” pervasa di chiacchiere, pregiudizi e feroce ipocrisia. Grande, immenso Palazzeschii!

MARTA S.

Splendida poesia di Verlaine, poeta “maledetto” e “veggente”. Il componimento sembra quasi una tela, oltre che una musica, e prende avvio con toni e colori pacati. La luce pallida e silenziosa dell’alba diviene grazie al contrasto con la “notte fonda” tanto forte da essere totalizzante (“essere di luce”), capace di allontanare “il rancore”, “la collera”, “i pensieri funesti”, fino ad assumere le sfumature del rosso come suggeriscomo gli “occhi in fiamme”. Il giorno insieme all’amore è scoppiato nel cuore del poeta e l’immagine che quest’ultimo ci restituisce è dolcemente in bilico tra la passionalità e la spiritualità.

ARIANNA CAPIROSSI

Bellissima idea riportare in luce le “Rime” del Tasso: questo autore ha sublimato il petrarchismo, troppo spesso imbalsamato in uno stile monotono e ripetitivo, in una lirica modernissima e vivace. “Mentre era fuori un sasso e dentro un foco” è citazione da Petrarca, che pure trova in Tasso nuova potenza e spessore icastico. La tragicità della chiusa “Spetrami, o donna, in prima, e poi m’ancidi” ha una dimensione teatrale inedita ed innovativa, così come l’apertura “Io mi credea sotto un leggiadro velo / Trovar inerme e giovenetta donna”, che ha chiaramente echi bucolici che rimandano al successo della favola pastorale a fine Cinquecento.

Penso che Pasolini sia stato il più eterodosso e lungimirante tra i poeti dell’Italia postbellica. Capace di lucidissime analisi sociologiche, ha tentato, attraverso una variegata opera che spazia dalle lettere al cinema, di aprire più volte gli occhi agli italiani sulle derive disumanizzanti della società consumistica. Evidentemente, gli italiani non lo hanno compreso, e anzi hanno preferito rinnegare uno dei loro massimi poeti rifiutando persino di inserirlo nei programmi scolastici. Eppure, Pasolini sarebbe il primo autore da leggere nei nostri licei. In questo modo, gli studenti capirebbero il potere liberante e critico che la letteratura può avere ancora oggi, e la interpreterebbero come ente attivo utile a forgiare le menti contro i subdoli inganni della contemporaneità; non la percepirebbero, al contrario, come spesso succede, a mo’ di orpello inutile e secondario. Rimarrebbero affascinati dal genio comunicativo di Pasolini, che ha saputo rilanciare l’amore per le lettere attraverso il cinema, con un perfetto sposalizio tra linguaggi artistici diversi. Grazie a lui, la storia della letteratura, dai Vangeli biblici alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, da Dante e Boccaccio a De Sade, ha potuto essere trasmessa alle coscienze degli spettatori tramite pellicola. Ha cercato di aiutare un intero paese a ritrovare la propria identità culturale, ormai scheletrita e dissolta a causa della negligenza del sistema politico. Basti pensare alla valorizzazione del paesaggio materano nel “Vangelo secondo Matteo”, per cui ancora oggi dobbiamo essergli grati.

CESARE

C’è profumo di primavera in questa breve poesia di Caproni. L’odore della terra bagnata dalla pioggia benefica per un frutto appena nato, il fieno che pare respirare in una pungente, umida trasudazione, il sole che riprende il suo ruolo di gioia, quasi ridendo. Ma soprattutto c’è una fanciulla che apre, come segno fresco e giovanile, la finestra, ed è un’apertura accogliente alla nuova stagione che si annuncia nel mese di marzo. Pochi tocchi di parole, come pennellate colorate, per introdurci in quella che è la più bella stagione dell’anno, intesa nel suo rifiorire, al risveglio di una terra e di un’aria di nuovo rigenerate.

FINIZIO SIMONA

Già dall’inizio della poesia si percepisce un paese minuto (tre casettine, verde praticello, piccolo ruscello) che però viene contrapposto con la grandezza del cipresso. Cipresso che ha anche una certa importanza in quel piccolo paese. Il villaggio in questione, secondo l’autore, è insignificante, però il cielo che lo sovrasta è stellato ed una stella in particolar modo è grande e luminosa. La stella in questa poesia è simbolo di portatrice di fortuna e di buon umore e oltretutto ha una tale importanza in quanto, secondo Palazzeschi, neanche una grande città, ne possiede una simile. Il paesino “Rio Bo” si può contrapporre alla cameretta provocante della Contessa Maria. L'”Interrogatorio della contessa Maria” viene riportato come una dualità conflittuale, un’amicizia complice, un confronto inesauribile; in un qual senso come riportato in minori termini nella poesia “Rio Bo”.

MARCO CAPECCHI

La cifra di Pasolini, probabilmente la coscienza critica più lucida del nostro dopoguerra , sta nel vivere la contraddizione fino in fondo nello stare con e contro, dentro e fuori, passione e disincanto. Una continua tensione tra essere e dover essere. Unico modo per tenere desta una critica incessante che mai trova pace.Pasolini: un regalo che questo nostro disgraziato e futile Paese non merita.

La ginestra di Leopardi, il glicine di Pasolini, la speranza disperata e l’esistenza stroncata, il rinascere della natura e gli abissi del vivere. Due poeti immensi che differentemente riflettono sul rapporto tra vita e senso dell’esserci.

MARIA ANTONIETTA RAUTI

Pier Paolo Pasolini: poliedrico, eccentrico, poeta di Casarsa, mai sconfitto, mai crocifisso realmente. Risorge dopo il giorno dei morti, festa continua alla vita oltre i limiti. Personalità forte, terribile nel suo essere diversamente vero, combattivo e nuovo. La modernità del suo pensiero fa tremare. La sua poesia risorge fra le Ceneri ogni volta che la si rispolvera,ogni volta che lo si richiama con la sua stessa forza di superare i preconcetti, sconfitti a priori. Da Casarsa, a Bologna, a Roma le sue Ceneri ritornano alla vita, rivivono tra le pagine delle Università e riecheggiano ogni volta che si incontra il suo nome che è in se stesso, ormai, icona senza tempo di poesia e grazia nel ricordo di chi lo ha incontrato ed amato… Grazie Pier Paolo!

Bellissima richiesta poetica, questa di Paul Verlaine… Difficile, forse, avvalersi di ciò che si possiede, vedere semplicemente ciò che i nostri occhi ci permettono, percorrere la strada che il destino ci ha riservato senza rimpianti, con la gioia di accontentarsi per accedere poi alle stanze del Paradiso… Perché, Esso Altro non è che la gioia vissuta in questa vita… vissuta con la Fede che altro non è che v ciò che fa accadere i miracoli, anche quello di far accendere l’alba!

ERIKA OLANDESEVOLANTE

Buon compleanno, caro Palazzeschi! E grazie per la splendida magia delle tue parole, perché ad ogni rilettura la tua anima riecheggia e ci strizza l’occhio dalle pagine dei libri e da quelle, più contemporanee, del nostro blog… Un abbraccio e un mazzo di rose selvatiche, come volevi tu, quelle “che vanno col tempo”!

YUMIKO NAKAJIMA

E’ bellissima la quartina di “Maiolica dipinta”! Sono veramente le poesie tozziane, sempre si avverte nel mondo cupo e legame al senso di colpa e di tristezza dell’uomo che e’ costretto ad allontanarsi dall’Eden. Anche nella “Maiolica dipinta” ci fa pensare alla fontana di cui le superficie che si riflette. Sempre si sente la paura di precipitare alla profondita’.

TANIA MONTINI

Bella, come solo un Uomo dotato della sensibilità e della grande umanità di Eduardo poteva fare, per celebrare con grande dolore la triste morte dell’amico. Grande stima artistica reciproca e l”amore per le traduzioni culturali popolari legava i due tra i più grandi artisti e intellettuali del nostro Novecento.

L’autunno come metafora dell’esistenza e solitudine dell’uomo. Rilke, come foglie secche, si vede cadere nell’imponderabile ignoto, Insieme allo sgomento cosmico dell’individuo di fronte all’enigma e alla sofferenza del vivere. Solo il divino, pur misterioso, si fa culla di amore, per accoglierci tenendoci per mano.

DANIELA DEL MONACO

L’albero ferito e “mutilato” (aggettivo che può riferirsi anche al poeta) è l’unica presenza che spezza la desolazione del panorama carsico. Il senso di mutilazione deriva dall’incombenza della guerra e si dimostra nel senso di rifugio tentato attraverso il sostegno chel’albero offre al poeta come fosse una stampella. Dall’immagine iniziale di stasi, drammaticamente fuori dal tempo e dallo spazio, si passa al dato storico della memoria che qui viene metaforizzato a livello geografico nella rappresentazione di quattro fiumi di luoghi diversi, appartenenti a diverse situazioni biografiche e a diversi tempi storici pertinenti al passato del poeta e, per quanto riguarda l’Isonzo, al presente. Nell’acqua dell’Isonzo, infatti, è percepibile l’acqua degli altri fiumi, qui ripercorsi cronologicamente, che hanno segnato la vita di Ungaretti.L’immersione nell’acqua del fiume ha sia una funzione regressiva, cioè di recupero del proprio passato e di testimonianza di qualcosa che è stato e che non c’è più (“reliquia”), sia purificatrice in
quanto il bagno catartico permette al poeta di sentirsi in armonia con l’universo e di percepire la propria esistenza e il proprio corpo come parte del tutto.  Di fronte allaconsapevolezza che le epoche che ha ricordato sono ormai perdute la vita non gli appare altro che una “corolla di tenebre”, cioè un fiore che, schiudendosi, è capace di produrre solo notte, morte, oscurità.

Pasolini sceglie un tema vivo della tradizione letteraria, quello della propria patria, senza però usare nei suoi versi il termine “Italia”, che risulta quindi la grande assente. Tale assenza vale come disconoscimento del presente (“sei esistita, ora non esisti più”). Il poeta ci apre gli occhi su una società – oggi più che mai attuale – inquinata dalla corruzione e dal degrado, denunciando una lunga serie di figure e di tratti miserabili che provocano disgusto, smarrimento, angoscia. Il componimento si conclude poi con un potente ultimo verso, a mio avviso un’eco dell’Infinito leopardiano, nel quale Pasolini spera che la sua, la nostra, nazione, dopo essere sprofondata negli abissi del mare/male finalmente riemerga liberata.

ROBERTA MAESTRELLIBERTI

Che capacità di evocare immagini, in “Italy” di Giovanni Pascoli… Tu leggi e.. vedi!

JR BIAGIOLI

Poeta del Fuoco, poeta che illumina le cose e ne svela il colore, in un mondo affetto da daltonismo emotivo. Rio Bo cela tantissimi colori e a me paiono evidenti il blu e il verde. Si scorge il verde del prato, un colore puro, e il blu del cielo scuro riflesso nel Rio, che non ha colore proprio e per questo è ancora più puro. Ecco, Palazzeschi ama proprio questa trasparenza del fosso. I grandi poeti vedono guizzi d’erba, vedono elementi fusi come metalli differenti, vedono un prato che come una trota fa cambiando di colore nel rigagnolo. Ma Palazzeschi, ingenuo e genuino, custodisce gli occhi di un bambino, che può cambiare come fossero occhiali. Bellissima la figura del cipresso che ondeggia e ogni tanto tocca con la punta, ma purtroppo solo in prospettiva, la stella occhieggiante. Sembra un mito greco.

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