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Firenze, 13 luglio 2017 – Tra qualche mese ricorderemo l’anniversario della morte di Carlo Betocchi, ma già sentiamo il bisogno di tornare a chiederci in quanti ricordano e leggono oggi Betocchi, pronti a riconoscere in lui, con sicurezza, una delle figure centrali del nostro Novecento.

Moriva vecchio, il poeta della vecchiaia, l’autore altissimo – dall’Estate di San Martino al drammatico e inaspettato Breviario della necessità – di un De senectute in versi di fronte al quale molte stagioni conclusive di poeti laureati, italiani e non, impallidiscono. Moriva vecchio e amareggiato da quella vita cui per tanto tempo lui e la sua poesia avevano spontaneamente aderito, con gioia, come ad un dono immenso: un dono naturale e misterioso, letificante. Anche il suo canto, la sua lirica tintinnante di rime e musicali rispondenze, rientrava in questa stupefatta visione del mondo, in questa sintonia tra parole e cose: «Io un’alba guardai il cielo e vidi». Una rivelazione, quella di Realtà vince il sogno, il notevole libro d’esordio del 1932, voluto da Bargellini e ristampato anni fa da San Marco dei Giustiniani per le cure di Giuseppe Langella; una religiosità preconfessionale, mitica, subito risoltasi in totale disponibilità nei confronti dell’esistenza, in umile ed entusiastica partecipazione al creato, alle sue meraviglie e alle sue segrete ragioni.

All’inizio della poesia di Betocchi, Dio e mondo sono assieme: un Dio che ha creato e crea, un Dio, più che vicino alle sue creature, in esse. «Io un’alba guardai il cielo e vidi», ed è subito un cielo che attrae, cui fa riscontro una soggettività visivamente e visionariamente rapita dalla registrazione da terra di altre creature: «angioli neri» in ampia e furiosa schiera seguiti da «un intenerito volo / di cerulee colombe alte e lente», e ancora angeli, angeli luminosi, piumati, bianco-rosei.

Si impone nel libro, qualche pagina dopo, «un lento ascendere dello splendore». Ma si noti: nella felicità pregustata di un’«etern’onda» solare solcata «con stupend’ali senza sussurro», si fa nostalgicamente sensibile pure il congedo del «dolce azzurro», di un cielo fisicamente sperimentato, di un «aere» goduto (Domani). Al giubilo, al sentimento di poter un giorno «vivere profondamente», si contrappone l’allegrezza della povertà, un umano ricordo specificatosi per il poeta-geometra in Tegoleto, un toscano borgo «selvaggio», frontespiziesco, piccola patria incontrata del duro lavoro, della fatica, ma anche dell’accordo, dell’armonico dialogo innamorato di uomini, animali e cose.

Una «religiosità senza aggettivi», per dirla con Ernesto Balducci; una sacralità esperenziale e condivisa, riluttante a qualsiasi indirizzo o primato intellettualistico, come in sostanza il cattolicesimo di Betocchi, configuratosi da subito come un luogo dell’immanenza: un tutt’uno omogeneo, primordiale, anteriore alle divisioni imposte dalle ideologie, alle complessità disgreganti del pensiero e della storia. Questa fiducia e questo incanto avrebbero poi siglato un lungo itinerario poetico, facendo anche della vecchiaia una dimensione ilare e penitenziale dell’obbedienza, un’età del sacrificio del tutto interpretabile e rassicurante. Solo alla fine questa fiducia e questo incanto si sarebbero incrinati, lasciando adito al dubbio, al disinganno.

Una poesia dell’umiltà si sarebbe avviata alle sue oltranze, ai suoi estremistici approdi di un «senza Dio» collettivo, vivo e mutante nel suo parificato consistere: «il più assoluto materialismo – parole del poeta – al fuoco della carità», e cioè – parole nostre – la massima offerta di sé per via di spoliazione, dentro e ben oltre le prospettive di un’inquieta, studiata ed ammirata Teresa di Lisieux, che in uno dei suoi bellissimi scritti afferma: «Egli permise che la mia anima fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del Cielo, così dolce per me, diventasse un argomento di lotta e di tormento».

Marco Marchi

Io un’alba guardai il cielo e vidi

Io un’alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.

Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d’ombra eternamente muta.

Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d’occidente
e lo seguia un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.

E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angeli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.

In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.

E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.

Carlo Betocchi

(da “Realtà vince il sogno”)

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