VEDI I VIDEO “Voce di vedetta morta” di Clemente Rebora , “Fratelli” di Giuseppe Ungaretti  letta dal poeta Mina legge dal “Giornale di guerra e di prigionia” di Carlo Emilio GaddaUna scena da “Uomini contro” di Francesco Rosi, da “Un anno sull’altpiano” di Emilio Lussu , “Una scena da “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Delber Mann, dal romanzo di Erich Maria Remarque

Firenze, 4 novembre 2017– Ricordando che il 4 novembre 1918 segnò la fine della Prima guerra mondiale.

La Grande Guerra ha storicamente costituito un evento eccezionale, ‘grande’ e di portata ‘mondiale’ per definizione, riconfermandosi argomento di indubbio interesse anche per l’attualità del mondo in cui viviamo: un mondo globalizzato in cui le guerre ancora drammaticamente si continuano a combattere e ci minacciano, e un quadro della contemporaneità come non mai bisognoso di momenti di riflessione e strumenti conoscitivi per essere sempre più responsabilmente affrontato.

La letteratura accompagnò la Grande Guerra: vi partecipò. Una testimonianza immensa, sterminata e a vastissimo raggio, affidata per via di memoria e scrittura alle emergenze di autori che dalla loro partecipazione al conflitto derivarono scritture di notevole valore artistico e in esse modi emblematici di reagire nel rapportarsi a quella nuova, tragica e sconvolgente realtà incontrata: dal sentimento di identità patria al senso di appartenenza ad una ricreata comunità di “fratelli”, dalle emozioni provocate a contatto con la violenza, il sangue e la morte in agguato agli aspetti più grigi di una dura quotidianità fatta non solo di cruenti combattimenti sulla linea del fuoco, ma di dolorosa lontananza degli affetti, stenti ed attese.

Fu la letteratura, infatti, anche sul versante italiano, ad assumersi l’incarico di fissare su carta e trasmettere al futuro accadimenti, emozioni e pensieri. Dai diari minutamente giornalieri e dai bilanci esistenziali di Piero Jahier, Renato Serra, Scipio Slataper e Ardengo Soffici ai versi di Giuseppe Ungaretti e a quelli meno noti ma altrettanto formidabili di Clemente Rebora (senza dimenticare il giovane Montale di Ossi di seppia, con un componimento come Valmorbia, discorrevano il tuo fondo); dai tripudianti regesti in chiave eroico-vitalistica firmati Gabriele d’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti a quelli altrimenti impostati ma nella loro specificità ineludibili di Carlo Emilio Gadda, Alberto Savinio, Curzio Malaparte e Carlo Betocchi. Fino ad un cronologicamente distillato e bellissimo romanzo su base memoriale come Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu, o alla requisitoria antibellicista di un lacerbiano eslege, decisamente schierato a differenza di Marinetti, Papini e compagni futuristi in senso neutrale, Aldo Palazzeschi, che della guerra, delle sue implicazioni, delle sue forme di umanità e disumanità rese biograficamente sperimentabili e delle sue conseguenze, avrebbe parlato in uno dei suoi libri più intensi, Due imperi… mancati.

Ma non solo i nostri scrittori e poeti certificarono delle complesse realtà psicologiche, intellettuali e antropologiche prodotte dall’impatto con un tale evento. Ecco così da tenere assolutamente presenti pure i documenti di scrittori e poeti che vissero l’esperienza della guerra combattendo nelle trincee nemiche e dando parimenti luogo a testi letterariamente e culturalmente di rilievo. Si pensi per esempio a Hemingway, o al molto discusso ma certo rilevante autore tedesco di Nelle tempeste d’acciaio Ernst Jünger (sua l’affermazione in chiave potentemente anti-borghese “La guerra è un rito sacro nel quale si produce voluttà ed ebrezza”, sottoscrivibile del resto, secondo varie sfumature, da parte di molti interventisti italiani di allora), o, ideologicamente agli antipodi, all’autore del giustamente celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale, Erich Maria Remarque.

Marco Marchi

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.

Clemente Rebora

(da Poesie varie)

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