L’altro giorno, un uccellino canticchiante d’una radio cinguettava: “Cala la gente che va a messa. Lo rivela il tal settimanale. Ergo, sentiamo che ne pensano i cattolici praticanti”. E giù interviste. Bene. Allora? E’ una notizia che i banchi delle chiese si stiano spopolando? A parte la labilità della statistica (c’è forse un “messatel” in giro?), il risicato share dell’omelia, a patto che ci sia davvero, è lo specchio dei tempi. Della relativizzazione assoluta. Della desacralizzazione. Di tutto. Parto da un esempio terra terra: gli stadi. Dieci anni fa anche una partita di serie C (Lega Pro per i più giovani e spigliati) faceva il pienone. Oggi è poco più di un vecchio match di Promozione.

Parto dal calcio perché, laicamente, è un paradigma di sacralità. Ma potrei continuare con l’inflazionata società dei titoli onorifici, delle cerimonie e delle decorazioni. E’ la parata a scacciare. Ad allontanare. A creare allergia. Ma, peggio, è il rapporto umano che è diventato un sms: poche lettere, contate, se possibile secche, senza portar via del tempo. Un sacerdote o un messaggio dall’altare crea problemi agli assuefatti da tweet. Troppe parole. Senza scadenze. E soprattutto troppo impegnative. Troppo lunge da meditare. Troppo “pesanti”. E vai col monologo. Della mente. Delle coscienze. Senza confronti, forse. E allora non è solo questione di messe sguarnite di fedeli. Ma pure di piazze vuote. Città di wi-fi, dove tutti blaterano con un portatile o uno smart phone, ma dove si evita accuratamente di farlo con quelli in carne e ossa. No, meglio svicolare. Voltare l’angolo. Pussa via. E altro che cattedrali deserte.