La cronaca scarcerata. La verità sprigionata. Quando la penna, cioè, prende il volo. E travalica anche le sbarre. D’una prigione. D’una, chiamiamola com’è, galera. E’ il miracolo di “Penna Libera tutti”, un giornale nato dentro un carcere. E anche grazie al carcere. Succede a Pesaro, dove dieci detenuti della casa circondariale di Villa Fastiggi hanno confezionato menabò, articoli e titoli. Ed eccolo là, il prodotto. Libertà di stampa. Stavolta nell’intrinseco senso del termine. A spalancare la cella del silenzio, ha contribuito un settimanale diocesano: Il Nuovo Amico. Diretto da don Raffaele Mazzoli e pilotato dal suo caporedattore centrale, Roberto Mazzoli, ha squarciato un velo che opacizza l’inedia e la noia delle celle, liberando la voglia e il diritto alla cultura. E l’ha fatto proprio come in quella pellicola, “Sulle ali della libertà”: Andy Dufresne smaneggia sul giradischi del penitenziario, ci piazza un disco di classica e lo connette a un altoparlante. Eccolo, il prodigio: anche se dietro alla muraglia della giustizia (sacrosanta), i detenuti volano col pensiero. Oltre la prigione della mente.

I lacci dell’impotenza intellettuale si sciolgono. La branda e la “perquisa” non sono più l’unica ragione di vita. Il cielo non è più solo a quadri, ma anche a righe: quelle d’un foglio. Che finisce in pasto a migliaia e migliaia di lettori. Pezzi di vita. Vergati da penne provate, colme d’esperienze, amarezze, frustrazioni, trucioli di coscienza, risentimenti, pensieri. Il fluido letterario diventa incandescente. Sociologicamente interessante, giornalisticamente intrigante. Comunque, umano. Allegoria dello sforzo di uscire dalle barriere, anche imbattibili, del pregiudizio, del preconcetto, della paura di comunicare. Di vivere. Scrivere è sentirsi liberi. Anche dentro una gattabuia. Dove il sorriso di quei dieci ragazzi, la redazione di “Penna libera tutti”, è già una colossale vittoria. Per la giustizia. Perché l’ha rimessi, anche se provvisoriamente, al mondo. Facendoli partecipare. Facendogli scontare, ma liberandoli dal torchio della colpa. Perché mortificare l’intelletto, e stavolta il senso è letterale, non vale la pena.

L’abbiamo letti, i loro reportage: sono storie. Quelle di tutti. Poi naufragate. Alla deriva. Venerdì scorso, quel primo numero gli è fruttato un diploma. Consegnato davanti alle telecamere Rai. Ai taccuini dei cronisti. Uno di loro ha picchiato il dito sul suo nome scolpito negli attestati, lanciando un’occhiata fiera alla direttrice del carcere. E’ stata la sua gloria. Ma anche quella del penitenziario. E di chi ci lavora. Rieducando.