Mi fissa. Tutte le mattine. Mi squadra. A volte burbero, altre silenzioso. Quasi in tono di rimbrotto. Allora cerco di dribblarlo. Con passo felpato. Ma lui fa capolino. Si mostra in ogni prospettiva. Di lato. Di sbieco. Logoro. Arrugginito. Muto. Inespressivo ma più espressivo che mai. E’ il mio elmetto della Grande Guerra. Quello che è posato sulla libreria bianca. Viene da Asiago. Dall’altopiano. Lo chiamavano Adrian. Ma ora è il mio. Sì, si fa presto a dire il mio. Era la testa di un altro. E ora quella volta ferrosa è come se ridesse. Grottescamente ridesse. Riguardo meglio. No, non è un’espressione. Avevo gridato al miracolo. E’ uno squarcio. Che pare una smorfia. Una bocca storta e amara. E’ il foro d’un proiettile che ha bucato quell’elmetto. Il mio. Ma che era la testa d’un altro: un fante della Grande Guerra. Ora ho scoperto che quel foro è un grido. Di dolore. Di rabbia. Di impotenza. E che quell’elmo parla. Anzi, urla. Strilla. Di giorno, di sera, di notte, col sole e con la pioggia. Più fuggi, più ti segue. Imperterrito. E, se chiudi gli occhi, lo vedi pure sgusciare tra un pantano e l’altro, tra un cadavere e l’altro. Inutile sbatterlo in un armadio, il soldato Adrian. Ti scoverebbe lo stesso. Prenderebbe la mira, non ti lascerebbe più. Assalto alla baionetta. Avanti Savoia. Viva la Patria. Le urla sarebbero più forti. Tremendamente vive in quel metallo morto. Muto. Ma ostinatamente vivo.