Dal romanzo delle Olimpiadi al romanzesco dei cinque cerchi. Laddove il primo è il titolo d’un nuovo volume del maestro Alfredo Pigna. E il secondo il goffo e popolaresco chiacchiericcio sulle gesta degli atleti oltre Manica. Come dire: l’autentico contro il fasullo, l’impresa contro la mistificazione, la letteratura giornalistica contro l’uomo qualunque della penna. Un agone olimpico. Una sfida impari per il taccuino etico contro quello cialtronesco. E allora che i cari colleghi di oggi se ne vadano a dare un’occhiata ai loro predecessori: si leggano Pigna, appunto, o Buzzati, o Brera, per capire il mistero dei cali d’attenzione nei confronti dela carta stampata e della tv. Pensateci: se Dino Buzzati Traverso era riuscito a paragonare i pur capricciosi e tutt’altro che santerelli Coppi e Bartali agli eroi omerici, i cantori di oggi stroncano ogni poesia, blaterando di aste e salti (del ciambotto) nei villaggi olimpici. Che poi sono la scoperta dell’acqua calda. Scusate, sa: ma che notizia è che un atleta (con o senza apostrofo) faccia i cavoli suoi alla vigilia? Storie scontate. Giusto per far scorrere inchiostro.

Babbo, che era dirigente d’una squadra di basket d’un certo peso, la Delfino Pesaro, raccontava che l’assistente ecclesiastico (allora c’era, specie nelle società nate all’ombra dei campanili) raccomandava ai giovanotti di non andare a canestro con la palla, che non era propriamente quella a spicchi. Erano gli anni Sessanta, ma credo proprio che persino i morbosi cronistelli locali non lo ritenessero una notizia. I pruriti sono roba di oggi. Da spiattellare sullo sterco informativo dei portali da quattro soldi. Negli anni Settanta, quando la pisellomania era stata sprigionata e sdoganata dai lacci del perbenismo, il mito del trombatore ai blocchi di partenza s’espletava nei filmuccoli da quattro soldi. Quelli coi colorini un po’ opachi e i mister muscolo (ma panciuti) col capello ossigenato. Ma il romanzesco delle Olimpiadi tocca punte elevatissime di pathos con il manicheismo: gli eroi del bene e del male. Il sorriso e le lacrime. I buoni e i cattivi. E allora, eccolo là, il luogo comune: quello dell’arrivano i nostri, dei grandi che fanno scordare il debito pubblico e lo spread, salvo pigliare premi e guadagnarsi una catena di serate ben prezzolati. La verità vera è che degli atleti d’oro alla gente interessa solo fino al podio. Poi, accoglienze e manifestazioni, ahinoi, sono solo mistificazioni da mass media.

La chanson delle Olimpiadi somiglia così più a quelle porcheriole prodotte dall’Arcadia, con bimbe e fanciulli cullati dalla natura, che a un’epica solida di imprese. Dino raccontò le Olimpiadi invernali: di Innsbruck dipinse trionfi nello sci di fondo con tratti realistici. Quasi caravaggeschi: la smorfia della stanchezza, il lurido della bava al traguardo, gli schizzi delle marmellatine energizzanti sui volti dei fondisti scandinavi. Così come affrescò la miseria degli sconfitti e la vergogna dei delusi. Alfredo Pigna, solo respirando, trasmetteva il sapore del parterre olimpico, trasportando in cabina l’entusiasmo e l’adrenalina di fuori. E, magari, da una giornata qualunque, pescava il pesce più normale possibile ma anche più insolito: il mito di Pasqualino. Del ragazzino del sud che spiccava sulla neve tra i colleghi ipervaccinati del nord. Il Dino, poi, sempre ad Innsbruck, riuscì a puntare la sua penna-telecamera su una ragazzina invalida. Lei, zoppicante, ad ammirare le slalomiste guizzanti tra gli allora paletti di legno della gara di sci. Anche quelli erano racconti. Ma romanzi. Veri. Etici. Come, deontologicamente, dovrebbe essere un’Olimpiade.