NEL 2011 pareva quasi spacciata, con il Pil in profondo rosso e lo spread alle stelle, dopo la Grecia tocca alla Spagna, pensavano tutti. A distanza di quattro anni, quello spagnolo è tutto un altro film: nel secondo trimestre l’economia è cresciuta dell’1% e a fine anno sfonderà il 3%. Il doppio della media europea, anni luce dallo 0,7% che punta a raggiungere l’Italia nel 2015. Ma, soprattutto, la crescita è trainata dalla domanda interna e dagli investimenti, segno che famiglie e imprese beneficiano della ripresa. Due fattori chiave che in Italia, pur avendo invertito il trend, stentano a decollare. Insomma, mentre noi tentiamo in tutti i modi di dare benzina alla ripresa, assistiamo all’ottavo rialzo consecutivo del Pil spagnolo, che porta il Paese guidato da Mariano Rajoy ai livelli pre crisi. Com’è possibile che i nostri cugini spagnoli siano tanto più bravi di noi? Attenzione, il Pil conta. Ma non è tutto oro quel che luccica.

INNANZITUTTO, la Spagna è partita a fare le riforme strutturali tre anni prima: rivoluzione del mercato del lavoro, pensioni, pubblica amministrazione, giustizi, una drastica spending review. E la scelta, molto pragmatica, di puntare sul modello export in salsa tedesca, «creando cioè – spiega Carlo Bastasin, della School of european political economy Luiss – una piattaforma per gli investitori stranieri con sicurezza del diritto, costo del lavoro calibrato sulla crescita aziendale, flessibilità e poca burocrazia. Risultato? La Spagna è il secondo Paese produttore di auto dopo la Germania pur non avendo delle grosse aziende».

LA CURA lacrime e sangue ha permesso quest’anno di avviare il taglio delle tasse, ma ha avuto un costo sociale non da poco, che ha fatto esplodere partiti populisti e anti rigore come Podemos e Ciudadanos. La disoccupazione continua a viaggiare oltre il 20% anche se, nell’ultimo anno, sono stati creati 477mila nuovi posti di lavoro in più. Cifra ben al di sopra del nostro 12,7%, ma il premier spagnolo assicura che nell’arco dei prossimi tre anni tornerà a scendere sotto il 10%. «Le imprese sono migliorate in produttività e competitività – spiega l’economista Irene Tinagli – ma la gente ancora non beneficia della crescita del Pil». Assistant professor all’università di Madrid, Tinagli ha il polso del Paese. E nota che il clima è cambiato: «Si vede dalla rapidità con cui aprono nuove attività commerciali. Ristorazione, turismo, retail crescono molto». Insomma, per le strade si respira più ottimismo e reattività.

MA PER CAPIRE a fondo le differenze tra i ‘cugini diversi’ dell’Europa del Sud bisogna tornare ai nastri di partenza. Quando è scoppiata la crisi, la Spagna veniva da anni ruggenti con una crescita del 3-4% tra il 2003 e il 2007, l’Italia da un lento declino. Inoltre, spiega Bastasin, «la crisi ha colpito una fascia circoscritta di popolazione, i giovani e il settore dell’edilizia, mentre da noi è stata generalizzata». Crisi anche di fiducia, aggravata dal fatto che mentre Rajoy faceva le riforme noi cambiavamo tre governi. «Scontiamo anni di immobilismo – conferma Tinagli –, come la rana che si fa bollire nella pentola senza accorgersene. Ora la strada è giusta, ma non si può crescere dall’oggi al domani».

LA SPAGNA ci ha messo oltre tre anni, ha salvato le sue banche con i 41 miliardi dell’Ue a prezzo di una pesante austerità, ma ha un deficit ben oltre i tetti europei (4,5% quest’anno) e il debito strutturale cresce. Insomma, non è poi così disciplinata. E questo si riflette sugli spread: il testa a testa con sorpassi a fasi alterne del differenziale di Btp e Bonos rispetto ai bund tedeschi deriva dal fatto che Madrid è perennemente in disavanzo fiscale e noi abbiamo uno stock di debito pauroso. Tradotto: per i mercati il rischio è simile. Ma in una corsa, ciò che conta è il traguardo. La differenza la farà la nostra capacità non solo di fare le leggi, ma di tradurle in riforme operative. In uno sforzo comune che deve coinvolgere tutte le forze sociali e produttive del Paese.