DA WALL Street a Shanghai, ha visto tremare i mercati. «Ma questa volta – assicura Stefano Chao, ex Lehman Brothers a New York e ora Investment Manager di AZ Investment Management (Gruppo Azimut) in Cina – è diverso. Non vedremo file broker con gli scatoloni in mano».
Le Borse cinesi restano col segno meno, l’ultimo scivolone con effetto domino sui listini mondiali è stato sui dati dell’industria qualche giorno fa. Non è solo speculazione, come dice il governo cinese…
«Il calo dell’indice pmi non è una sorpresa, l’economia cinese sta rallentando soprattutto a livello di produzione industriale. Il mercato azionario cinese però è slegato dall’economia reale: nel 2013, ad esempio, quest’ultima cresceva dell’8% e il primo calava. Poi, naturalmente, se il mercato scende c’è un impatto anche sull’economia reale».
Nel 2008 lei era a Lehman e visse in prima persona il crac finanziario che sconvolse il mondo, vede delle analogie con la tempesta cinese?
«Questa non è una crisi finanziaria. Superficialmente vediamo molta volatilità, ma nel 2008 era diverso: l’intero sistema finanziario era sull’orlo del collasso. Nei giorni scorsi il mercato interbancario delle obbligazioni non si è mosso mentre, 7 anni fa, le banche non tradavano le obbligazioni tra loro: temevano che un istituto potesse fallire il giorno dopo».
Insomma, non vedremo file di trader con gli scatoloni?
«Non li vedremo. La Cina si sta lentamente trasformando, da economia basata prevalentemente su industria pesante ed export a una avanzata, sostenuta da servizi e domanda interna. Quest’ultima a luglio è salita del 10,5%: significa che il Paese non è sull’orlo del collasso, ma in espansione. Anche il settore dei servizi è cresciuto e vale il 48% del sistema economico».
Quanto ci metterà il Dragone a cambiare pelle?
«Nei prossimi 5 anni si vedrà un ribilanciamento del sistema economico».
Se la seconda economia mondiale cambia fisionomia, non sarà privo di conseguenze per gli altri Paesi.
«Gli emergenti che esportano materie prime verso la Cina ne soffriranno, così come il Giappone. In Europa sarà penalizzata soprattutto la Germania».
L’export italiano ne risentirà?
«Non credo. È, invece, possibile che, a causa del rallentamento cinese, aumentino gli investimenti equity verso Italia ed Europa».
Nel 2008 la crisi partì coi mutui subprime. La bolla cinese è diversa?
«Mentre negli Usa venivano concessi mutui a tutti, in Cina il prestito copre al massimo il 70% dell’immobile. L’esposizione delle banche sul settore è del 50%: per fare collassare il sistema il mercato dovrebbe dimezzarsi».
L’atteggiamento della People’s Bank of China ha contribuito alle fibrillazioni dei listini.
«Si è mossa in modo sbagliato per inesperienza: ha modificato il calcolo del valore della moneta e il giorno dopo ha fatto la conferenza stampa, cogliendo di sorpresa i mercati. E i mercati non amano le sorprese. Inoltre, quello cinese è giovane e immaturo, all’80% fatto di investitori retail».
Immagina altre svalutazioni a breve?
«È difficile prevederlo, ma se fosse una ‘guerra di valute’ la Cina avrebbe già perso: le divise di altri Paesi emergenti sono scese del 30-50%, contro il 2-3% cinese. L’obiettivo è rendere lo yuan più ancorato al mercato, anche se il controllo governativo resta forte, per farlo entrare nel club delle valute di riserva del Fmi. Nei giorni in cui tutti shortavano sullo yuan, si stima che la Pboc abbia comprato 200 miliardi di dollari di valuta: non l’avrebbe certo fatto se avesse voluto innescare una guerra».