«COME in una sequenza cinematografica mi vengono in mente due immagini. Da una parte Roma. Isolata. Dove i governanti non vogliono avere rapporti coi governati. Dall’altra Milano, piena di gente, che si stringe attorno al Papa».
Rino Formica, vecchio leone socialista, uno fra i pochissimi, per capirsi, che sapeva dire dei fermi ma cortesi «No» all’allora onnipotente Bettino Craxi, analizza con sereno pessimismo l’anniversario dei Trattati del 1957 e il documento scritto ieri.
Formica, lei usa immagini cupe.
«Chi governa è lontano da chi dovrebbe essere governato. Chi si è stretto attorno al Pontefice non è che si è convertito così, all’improvviso… Il presente che viviamo pone temi laceranti che dividono popoli e maggioranze democratiche».
Le celebrazioni romane hanno partorito una lunga Dichiarazione.
«Documento che sfuma le parole. Senza un significato proprio. Senza proporre una soluzione nitida. Si parla dei prossimi dieci anni come spazio temporale per superare la crisi. Un vaticinio? Una speranza? Che risposte diamo ai grandi temi dell’euro, dei migranti, delle crisi economiche e sociali? La realtà è che nessuno ha il coraggio di sciogliere l’Unione e quindi si ricorre a queste formule».
C’è il tentativo di declinare l’Europa all’insegna dell’unità.
«Un tentativo fallito. Mi vengono in mente le parole di Stalin: Quando non riesco a raggiungere la maggioranza mi accontento dell’unanimità».
E allora che cosa sono andati a fare a Roma i leader europei?
«Direi che è stata una vacanza romana. Soffocata».
Perché?
«Ma perché rinchiudersi all’interno di logiche protezionistiche e nazionalistiche pone un doppio problema. Da un lato di tipo sovranazionale, dall’altra di tipo nazionale. Se non capiamo che il problema è il conflitto che c’è tra modello sociale e misure comunitarie non arriviamo a nulla».
Si riferisce all’Italia?
«Sì. La prima parte della Costituzione definisce il modello sociale del nostro Paese. Si parla di lavoro. Non di mercato, concorrenza, profitto. Quindi la domanda conseguente e logica è: sono in grado i governanti di rispettare i vincoli imposti dall’Europa senza entrare in conflitto con la carta costituzionale? Evidentemente no».
E come se ne potrebbe uscire?
«Introducendo una norma semplice semplice: qualsiasi decisione che incide sulla prima parte della Costituzione va sottoposta a referendum. Ma ci vorrebbero partiti di sinistra veri in grado di prendere l’iniziativa affinché le regole europee non impongano scelte in contrasto con i principi costituzionali italiani».
Diceva di Milano e di Papa Francesco.
«Sì. Mi è venuta in mente la Roma del luglio 1943 bombardata dagli Alleati. Con Papa Pacelli fra le rovine e la gente intorno in cerca di un briciolo di speranza».
Presidente, i populismi…
«La fermo subito. Basta porsi problemi astratti. Andiamo sul pratico. C’è una frattura tra popolo e istituzioni. Non è una novità, accade da fine Ottocento e sempre in momenti di crisi. Ciò detto, l’ostacolo non va aggirato. Perché sta andando in crisi il modello della rappresentanza democratica con rischi di distruzione del Parlamento».
Mentre nel 1957…
«Formidabile atmosfera. Eravamo in pieno boom. La gente aveva fiducia nella politica. Altri tempi. Lontanissimi».
Erano i tempi di comunisti e socialisti in disaccordo sull’Unione europea…
«No. Le posizioni della sinistra italiana erano tre. Comunisti ostili. Pietro Nenni e il Psi neutralisti. Iniziativa socialista e Psdi di Giuseppe Saragat decisamente europeisti».
Ora invece c’è malinconia.
«Sì. Specie da parte di una persona, Matteo Renzi. Gli si è stretto il cuore e si è mangiato molto fegato a vedere Paolo Gentiloni firmare…».