LA SALA vacilla. «E ora, come facciamo?» Firenze, inizi del nuovo millennio. Tra i relatori a un convegno c’è anche Valentino Parlato. Che, però, fuma tantissimo, anche quando parla. E la sede è istituzionale. Impossibile assecondare il vizio. Che fare? Soluzione semplice e scomoda insieme: il convegno si fa all’aria aperta, in una casa del popolo. Aneddoto che serve a capire come il fondatore del “Manifesto”, morto ieri a 86 anni, fosse davvero contro, scomodo e fuori dal coro, come centinaia di politici di varia estrazione si affrettano ora a sottolineare.
Talmente scomodo che non esita, in tempi di (sacrosante) crociate antifumo a scrivere un provocatorio libriccino: “Segnali di fumo. Locali per fumatori”. In quelle pagine, descrive i luoghi di Roma e Milano ove ancora si può assaporare il dolce veleno: «Il fatto – dice scherzando fino a un certo punto – è che non si preoccupano della salute, ma della spesa dello Stato. Per questo esalto la clandestinità». Per altro, fuma sigarette yankee, beccandosi affettuosi rimproveri di amici e compagni. E lui, tossendo, scuote il capo, magari bevendo un caffè in un bar di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma.

NASCE a Tripoli nel 1931. Suo padre è emigrato nel 1926, diventando procuratore del registro dell’ufficio delle imposte. E in Libia comincia la sua carriera di giornalista militante. Scrive per il “Corriere del lunedì”, settimanale del Partito comunista. Nel 1951 lo rimandano in Italia: «Mi arrestarono una mattina come “comunista” e mi spedirono in Italia con la prima nave. Con me c’erano tre operai, il notaio più ricco di Tripoli e un ufficiale postale. Erano i tempi in cui l’amministrazione britannica stava ripulendo la Libia per restituirla a re Idris in vista dell’indipendenza».
Alla Libia resta sempre legato. Una volta cerca di convincere amici e colleghi che Gheddafi legge Rousseau e Dickens. Non ci riesce. Del resto, sono lui e il collettivo del “Manifesto” ad aver coniato lo slogan «sempre dalla parte del torto», ogni volta rivendicato con cortese fermezza.
A Roma, il giovane Valentino si laurea in legge e comincia a scrivere – presentato da Luciana Castellina – sull’“Unità”. Si occupa delle province: «Ai Castelli Romani ricordo un’occupazione di palazzi patrizi da parte degli sfollati. Dalle finestre gli occupanti, che non avevano gabinetti, svuotavano i vasi da notte nei campi e tutta la facciata era intonacata di merda». Il giornale del Pci – fondato nel 1924 da quell’Antonio Gramsci che sarà sempre il faro di Parlato – gli dà diecimila lire al mese. Poi, l’esperienza a “Rinascita” (il mensile di formazione del Pci) e quindi l’inizio della vera avventura della sua vita, “il Manifesto”.
Cacciato dal Pci nel 1969, lo fonda con alcuni degli intellettuali più “fuori linea” del tempo: da Lucio Magri a Luigi Pintor, da Luciana Castellina ad Aldo Natoli a Rossana Rossanda e molti altri. Capisce subito che i paesi a comunismo reale non sono un modello per il suo progetto di “nuova sinistra” e smette di salutare Giorgio Amendola, «il vero rapporto forte della mia vita». Talmente forte che una volta si becca anche uno schiaffone dallo storico dirigente comunista.

PARLATO attraversa tutta la storia dell’Italia repubblicana. Gianni Letta? «Veramente cortese». Ciriaco De Mita? «Mamma mia, quante parole!». Massimo D’Alema? «Che faccio, mi metto a dirgli, come facevo con Berlinguer, che non è abbastanza comunista? Per lui è un complimento». Berlusconi? «Come editore, in un certo senso, è più puro di altri». E poi, le prese di posizione destinate a innescare polemiche feroci. Come quella sulla massoneria: «Nonostante la P2, son del tutto contrario alla sua demonizzazione. L’ultimo discorso parlamentare di Gramsci fu contro la legge fascista che la aboliva». Per il suo “Manifesto” – che dirige più volte – ha in mente un giornale «di lusso, un giornale anticapitalistico ma eclettico, molto più colto di “Le Monde”».

SA BENE, del resto, che i giornali di partito e politici hanno, sin dalla metà degli anni Ottanta, un futuro incertissimo perché, dice, «se non ci sono più militanti, è normale che non ci siano più giornalisti militanti».
Cambiano le epoche e, proprio un mesetto fa, Parlato scrive sul “Manifesto” il suo pensiero finale: «Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire. Sarà un lungo lavoro, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Perché, come recita una famosa pubblicità del giornale comunista, «la rivoluzione non russa»..