Premessa doverosa, ancorché un po’ pedante. Quando il recensore ha di fronte una raccolta di articoli scritti in epoche più o meno passate per giornali e riviste di genere e orientamento vario, tende ad accarezzare la fondina della pistola. Tentazione ancor più difficile da controllare se l’Autore è anche l’editore del libro in questione.

Ma lo stato di “allarmata allerta” (come diceva, secoli orsono, un mio compagno di scuola che voleva fare il poeta, senza, per fortuna delle patrie lettere, riuscire nel suo pur nobile intento) cede a una liberatoria certezza di scampato pericolo allorché l’occhio scorre le pagine di Ernesto Di Lorenzo intitolate Un’Isola all’orizzonte (edl edizioni). Certo, la copertina, una splendida fotografia di Lucia Cassarà («Poesia di un tramonto»), aiuta moltissimo.

Di Lorenzo raccoglie, in un bloc notes d’antica eleganza, alcuni suoi scritti dedicati al vero, unico e supremo amore della sua vita: la Sicilia. Lì è nato e vissuto, lì lavora, lì si diletta di arte letteraria e storica (il Nostro è di Alcamo, gemma preziosissima della Trinacria che guarda a Occidente). La raccolta potrebbe essere collocata nello scaffale della letteratura di viaggio, ma soprattutto nella sezione dedicata alle biografie. La cifra stilistica di Di Lorenzo sembra fatta apposta per questo genere letterario e giornalistico. Mi piace inoltre sottolineare la scrittura dell’Autore, che non presenta stanchi barocchismi, ma che fa della semplicità la sua forza. E chi scrive chiaro ha anche le idee chiare in tempi in cui, perdonatemi la citazione personale, un vecchietto come me si sente dire “quello è bravo giornalista, peccato non sappia scrivere”: roba da matti.

Tra i “medaglioni” di Di Lorenzo spiccano campioni della letteratura come Soldati, Calvino (unico punto su cui mi permetto di provare molto meno entusiasmo dell’Autore), Moravia, Sciascia, Maupassant, Piovene, Vuiller, Comisso, Bertarelli. Tutte storie, quelle narrate, che ravvivano, come certe antiche soluzioni galeniche, la memoria non appannando i riflessi, ma, anzi, rinvigorendoli.
Nell’articolo dedicato a Mario Soldati ho assaporato il gusto più intenso di Sicilia. “Dal sole di mezzogiorno – scriveva nel luglio del 1959 -, contro cui il largo corso non offriva difesa, svoltammo a destra in un vicolo, trovando subito l’ombra e sperando di trovare anche il vino”. Di Lorenzo ci racconta la storia di quel maestro insuperabile in viaggio per le contrade siciliane. Deve realizzare un’inchiesta televisiva sulle (poche) letture degli italiani. Si accompagnano a lui (che invidia!) Cesare Zavattini, Carlo Musso e Tino Richelmy. Destinazione: Trapani. Ma la suggestione letteraria – Alcamo è patria dell’immortale Ciullo – e alcolica – il bianco di quelle parti è divinamente buono – inducono il quartetto a una deviazione. Parcheggiata “la macchina in piazza Ciullo, cercammo refrigerio e alimento nel vicolo buio”. Poi, come giustamente annota Di Lorenzo, ecco la pennellata-capolavoro, quella che, in poche righe, dà il senso a tutto: “Avanti, avanti nell’ombra e nella frescura. Richelmy ci precedeva di qualche passo e pareva guidato da un istinto misterioso. Ecco, infatti, si ferma: non è un’osteria, non è una bettola, ma un semplice, nudo scantinato senza insegna veruna: assuefacendoci all’oscurità, cominciammo a distinguere un grande tavolo di marmo, due persone scure davanti ai loro bicchieri di vino, e botti, botti in fondo, contro il muro di dura pietra”. Ancora oggi, fatte le debite proporzioni e nonostante questa indecorosa globalizzazione che tutte le identità annulla, potrebbe (ad Alcamo o nel trapanese tutto) succedere una cosa del genere. Ovviamente, “agli insoliti avventori”, fu servita una colazione da sogno: “pane, una cartata di sardine, uova sode, olive verdi e nere”. E tanto bianco d’Alcamo: il “mangiar questo cibo invogliava a ribere quel vino”. Era come se “il grande boccale fosse continuamente vuoto”.

Potremmo fare altri mille esempi di questo aneddotico e coltissimo esercizio narrativo. Che, attenzione, non è solamente letterario, bensì anche artistico. Si pensi al “paladino dei beni culturali, lo storico dell’arte, il teorico di estetica, il docente brillante, il polemista irriducibile”, vale a dire Cesare Brandi, il senese Cesare Brandi che insegnò anche a Palermo e che si domandava, con affettuosa stupefazione: “Ma può esserci al mondo un paese più bello della Sicilia?”. Chissà, forse no. Anzi: certamente no. Possiamo assicurarlo con ragionevole certezza.
Ps Tutto da leggere il capitolo su Guido Piovene, inquietante profeta del massacro di Palermo perseguito con scientifica malvagità dall’allora Balena Bianca…