Le riserve strategiche americane traboccano di petrolio ma i produttori continuano a pompare greggio e sfidano le leggi economiche della sopravvivenza nella più grande guerra commerciale del dopoguerra. Risultato? Il prezzo del barile non può che scendere in modo vertiginoso: la settimana scorsa il Wti ha ceduto quasi il 10%, all’alba di lunedì la quotazione in Oriente è piombata sotto i 44 dollari al barile, il minimo dal 2009, prima di riprendersi con una chiusura sopra i 45 dollari. Quasi una catastrofe per Paesi produttori, società di estrazione e finanza speculativa, una manna dal cielo per tutti gli altri, consumatori in testa.

Per l’Italia i sei mesi di crollo delle quotazioni nel 2014 (all’incirca 55 dollari in meno al barile da giugno) hanno significato il contenimento della bolletta petrolifera di oltre cinque miliardi e una previsione altrettanto significativa sull’anno in corso, con un aumento della ricchezza prodotta stimata tra 6 e 10 miliardi. Nonostante i prezzi al distributore facciano sempre molta fatica a diminuire e ad allinearsi con quelli medi europei.

Ma non è tutto oro (nero) quel che appare. Il mercato del greggio è da sempre del tutto volatile, particolarmente sensibile alle tensioni geopolitiche e ai meccanismi della domanda e dell’offerta: gli anni del petrolio a prezzi alti impongono investimenti tecnologici, ricerca di nuovi giacimenti e innovazione negli impianti che hanno spesso come conseguenza gli aumenti di produzione e le ondate di offerta che travolgono i prezzi. Nel 2003, dopo la mini-recessione statunitense, il barile era sceso a 23 dollari per poi esplodere a 150 dollari solo cinque anni dopo.

La storia si ripete oggi con lo shale oil, il greggio ricavato dalla rivoluzionaria tecnica di estrazione (attraverso la frantumazione delle rocce) che ha lanciato sul mercato americano 4 milioni di barili al giorno, lavorati negli impianti del Texas e del Nord Dakota dai nuovi cercatori d’oro: hanno reso il Paese quasi indipendente dalle importazioni.

Il contraccolpo non si è fatto attendere ed è divenuto dirompente nell’autunno scorso, quando l’Arabia Saudita si è rifiutata di chiudere i rubinetti per sostenere il prezzo e favorire così i suoi concorrenti in difficoltà nel reggere quotazioni così basse. Ha accettato il braccio di ferro del mini-petrolio, in pochi mesi un mercato mondiale che valeva una decina di miliardi di dollari al giorno si è dimezzato nel valore, mentre le grandi major iniziavano a fare i conti con la contrazione dei profitti. Eni ha registrato nel 2014 un calo dell’utile netto del 16% e ha tosato il dividendo, Exxon ha perduto 50 miliardi di capitalizzazione come Shell e meno di Chevron, per Bp si stima una contrazione degli utili attorno all’8 per cento.

Tra i piccoli produttori statunitensi è panico: nel suo report di inizio marzo la società di servizi petroliferi Baker Hughes ha registrato l’ennesima diminuzione nel numero dei pozzi a stelle e strisce, scesi sotto le mille unità per la prima volta dal 2011. I crac si moltiplicano, le banche si coprono ed escono dagli investimenti. E non è finita: secondo molti operatori non solo non si ritornerà ai 100 dollari al barile in tempi brevi – anche per via della debolezza dei consumi soprattutto europei, scesi nell’ultimo decennio del 15% in Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia – ma è probabile che i prezzi scendano ancora. Certo, le previsioni economiche sono spesso scritte sulla sabbia ma consumatori e aziende oggi possono approfittare del denaro che resta nei portafogli grazie al mini-barile, finché tale rimarrà.