Per chiarire fuori di ogni dubbio il mio giudizio complessivamente NEGATIVO sull’esito di Cop21 ecco il mio commento _ direi chiaro nel prendere nettamente posizione _ e il pezzo di cronaca, che ovviamente è un pezzo di cronaca ma fa capire perfettamente come stanno le cose. In estrema sintesi, è stato approvato un accordo del tutto inadeguato all’obiettivo. Spero basti, anche perche gli stessi concetti _ posto che l’obiettivo del “molto meno due gradi” è realistico anche se è solo discreto da un punto di vista ambientale, serve un accordo legalmente vincolante sulla MITIGAZIONE e sulle RISORSE FINANZIARIE, per le quali sarebbe ben utile una pur modesta tassa sulla Co2 _ li ripeto da anni….

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Commento pubblicato oggi sul QN

NELL’ENTUSIASMO di Parigi, c’è chi ha detto che l’accordo segna la fine dell’era dei combustibili fossili. Magari fosse. Il World Energy Outlook 2015 ci dice che dal 2013 al 2040 la domanda di energia crescerà ancora di 1/3, e quella di elettricità crescerà del 70%, con la crescita che verrà quasi del tutto dai paesi in via di sviluppo. E la verità è che in larga parte da qui al 2040 la domanda elettrica sarà ancora prodotta con fonti fossili. E delle peggiori, come il carbone che in questi anni ha visto crescere la sua quota dell’energy mix globale dal 23% del 2000 al 29% attuale. Uno studio del World Resources Insititute ci dice che nel 2012 era in programma la costruzione di 1199 centrali a carbone, per il 67% in Cina e India. Ed è proprio qui, nei gradi paesi in via di sviluppo che va combattuta la sfida. In parte sta accadendo. Un aggiornamento del 2014 ha abbassato il numero delle centrali a carbone a 1083. Prova del cambiamento in atto.

NON A CASO nel 2014 le rinnovabili sono la metà della nuova potenza elettrica installata, ma è ancora un cambio troppo lento. Per accelerarlo non basta l’accordo di Parigi, che allo stato è un esercizio di buona volontà che fissa un obiettivo largamente condivisibile (contenere il riscaldamento entro i due gradi e possibilmente entro il grado e mezzo) ma si affida solo a impegni di riduzione assolutamente volontari. Ed è quindi strutturalmente debole e del tutto inadeguato. Gli impegni portati sinora a Parigi sono insufficienti perché ci consegnerebbero un mondo più caldo di 2.7/3 gradi e un loro innalzamento è urgente ben prima della revisione 2023: già nel 2020, come l’accordo permette, o persino prima.

Perché la verità è che il successo dell’accordo di Parigi dipende da quello che da ora in poi gli stati ci metteranno dentro, come ha ricordato ieri il segretario di stato americano John Kerry. Dipende dalla volontà di ridurre la quota di carbone bruciato agendo in primis in Cina e India e dalla scelta di ridurre i sussidi alle fonti fossili, sussidi che ancora oggi ammontano secondo l’International Energy Agency a stratosferici 490 miliardi di dollari all’anno. Dipende dagli incentivi all’efficenza energetica. Dipende dalla volontà di intraprendere azioni reali e massicce verso la decarbonizzazione, per avere risultati tangibili. Solo questo _ cioè i fatti, non le promesse _ ci salverà

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Articolo pubblicato oggi sul QN

IL MONDO ha il suo primo accordo globale sul clima. Un accordo che unisce paesi sviluppati e non, 195 nazioni dalla Ue alla Cina, gli Stati Uniti, l’India, il Giappone, la Russia fino alle Maldive, la Bolivia e il Malawi, e che pone globalmente l’obiettivo di un surriscaldamento del pianeta che sia inferiore ai due gradi, possibilmente 1.5.

QUELLO ADOTTATO alle 19.26 di ieri dalla Cop 21 di Parigi dopo due settimane di difficili trattative è un accordo storico, ma inadeguato all’obiettivo. Esultano il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, i presidenti Hollande e Obama, e la maggior parte degli ambientalisti. Ma al di là degli entusiasmi l’accordo va letto per quello che è. La chiave di tutto è il cambio di prospettiva, niente più impegni obbligatori di riduzione legalmente vincolanti, ma impegni volontari. È un approccio basato sul mercato e buona volontà, caro agli americani, che è riuscito a trasformarsi in intesa globale proprio per la sua mancanza di vincoli. Ciò premesso, l’intesa, articolata in in due parti (l’Accordo di Parigi vero e proprio e la Decisione che verrà recepita nella Convenzione sul clima) stabilisce all’articolo 2 l’impegno a mantenere il riscaldamento «ben sotto i due gradi rispetto ai livelli preindustriali» e a «fare sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1.5 gradi».

Un impegno ambizioso che è del tutto basato su scelte volontarie. L’articolo 3 prevede infatti che per raggiungere gli obiettivi vengano presi impegni nazionali volontari, che dovranno pur essere progressivi nel tempo. Saranno però gli stati, quindi gli stessi inquinatori, a decidere quanto stringere la cinghia. E non si sa quanto tempo ci vorrà a raggiungere gli obiettivi. Nell’articolo 4 si afferma infatti che le parti si impegnano genericamente a raggiungere il picco di emissioni «prima possibile», il che significa quando sarà possibile, e che «ai paesi in via di sviluppo sarà necessario più tempo». Dopo aver raggiunto il picco, gli stati dovranno ridurre rapidamente le emissioni e raggiungere un bilanciamento tra emissioni e assorbimenti «nella seconda metà del secolo». Che può legittimamente voler dire 2051 ma anche 2099.

SCOMPARSO dall’accordo di Parigi l’articolo sulla finanza, il riferimento preciso all’impegno di mettere a disposizione 100 miliardi di dollari dal 2020, punto che ora rientra nella Decisione, in forma molto blanda. Si afferma infatti al punto 54 che «i paesi sviluppati intendono continuare l’obiettivo di mobilitazione esistente (i 100 miliardi, Ndr) fino al 2025» e che «prima del 2025 la Conferenza delle parti dovrà stabilire un nuovo obiettivo collettivo da una base di 100 miliardi di dollari all’anno». Dulcis in fundo, la questione della verifica degli impegni presi. L’articolo 14 la fissa al 2023, quindi tardissimo, poi ogni 5 anni. Ma per gli stati di buona volontà ci sono molte altre occasioni di rivedere l’impegno. Tanto per cominciare, potranno farlo nel 2020, quando dovranno formalmente presentare gli impegni, e magari annunciarlo nel «dialogo» convocato nel 2018. Debole strutturalmente, l’accordo offre però ampi spazi per rafforzarsi. E trasformare un successo politico in un successo vero.