di Alessandro Farruggia

Gli eventi estremi, l’aumento delle temperature, la riduzione dei ghiacci. I segnali del cambiamento climatico in atto sono ovunque, già oggi. Ma la battaglia contro i cambiamenti climatici la si vince solo facendo difficili scelte poltiche, nel segno dello sviluppo tecnologico, della modifica del mix energetico e degli stili di vita, della solidarietà tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Servono mitigazione (cioè taglio delle emissioni) e misure per l’adattamento. A questo il mondo lavora da almeno 27 anni. A Bonn si apre oggi e proseguira’ fino al 14 novembre la Cop 23 e la numerazione delle Conferenze delle Parti (Cop) della Convenzione sul cambiamento climatico è un indicatore impietoso dei tempi biblici richiesti dalle trattative climatiche. Signifìica che sono passati 27 anni da quell’Earth summit di Rio del Janeiro che diede vita alla Conferenza quadro sui cambiamenti climatici, 24 anni dall’entrata in vigore (21 marzo 1994) dell’UNFCCC  e 23 anni dalla conferenza di Bonn, la Cop1.Da allora si è approvato il protocollo _ legalmente vincolante ma limitato agli inquinatori “storici “_ di Kyoto (1997) e poi quello _ volontario negli impegni nazionali di riduzione ma globale _ di Parigi (2015), polticamente i progressi vanno riconosciuti,  ma i risultati in termini di emissioni sono stati a dir poco scarsi. Le emissioni di Co2 sono passate dalle 22.4 gigatonnellate del 1990 a poco più di 36 gigatonnellate nel 2016: un aumento del 63%. La montagna ha quindi prodotto il topolino: una riduzione del “business as usual” (lo scenario di crescita normale) che sarebbe stato anche peggiore. Comunque, un mezzo disastro.

Le misurazioni in atmosfera segnalano un nuovo record delle concentrazioni di Co2 in atmosfera: 403.95 ppm a luglio 2017, contro 401,83 ppm del luglio 2016. Circa il 145% rispetto ai livelli preindustriali. Conoscendo il “forzante radiativo” della Co2 è ovvio il suo ruolo nel cambiamento climatico in atto. Ma di fronte a questo le promesse della comunità internazionale, che si sono sostanziate nell’accordo sul clima di Parigi ,restano insufficienti. E in larga parte sono ancora sulla carta.  L’ottava edizione del rapporto Emission Gap dell’Unep pubblicato prima della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Bonn, rileva che gli impegni nazionali presi nell’ambito dell’accordo di Parigi portano solo un terzo della riduzione delle emissioni necessaria entro il 2030 per raggiungere gli obiettivi climatici. Allo stato attuale anche se ci fosse una piena impletazione degli impegni nazionali volontari (NDC) presi, a fine secolo avremmo un aumento della temperatura di 3.3 gradi, e di 3.6 senza gli Stati Uniti. Cioè lontanissimo dall’obiettivo di Parigi di contenere entro i due gradi, e possibilmente entro 1,5° il riscaldmento rispetto all’epoca pre industriale. Il rapporto Dell’Unep rileva che gli NDC dell’accordo di Parigi farebbe sì che  le emissioni del 2030 saranno probabilmente tra 11 e 13,5 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2e) al di sopra del livello necessario per rimanere sulla strada meno costosa per raggiungere l’ obiettivo dei 2 C.

“Per evitare il superamento degli obiettivi di Parigi _ osserva l’Emissions Gap Report 2017 _ i governi (anche aggiornando gli impegni assunti a Parigi), il settore privato, le città e altri soggetti devono portare avanti con urgenza azioni che porteranno a tagli più profondi e rapidi.Il rapporto illustra i modi per farlo, in particolare nei settori dell’ agricoltura, dell’ edilizia, dell’ energia, della silvicoltura, dell’ industria e dei trasporti. Gli investimenti tecnologici in questi settori – con un costo d’ investimento inferiore a 100 dollari per tonnellata di CO2 evitata, spesso molto inferiore – potrebbero risparmiare fino a 36 GtCO2e all’ anno entro il 2030.Gran parte del potenziale in tutti i settori deriva dagli investimenti per l’ energia solare ed eolica, da elettrodomestici efficienti, da autovetture efficienti, dalla riforestazione  dalla lotta alla deforestazione. Concentrandosi solo sulle azioni raccomandate in questi settori – che hanno costi modesti o negativi netti – si potrebbero ridurre fino a 22 GtCO2e nel 2030. Questi risparmi da soli metterebbero il mondo sulla strada giusta per centrare l’ obiettivo 2C e sbloccherebbero la possibilità di raggiungere l’ obiettivo dei 1,5C”. Volendo quindi, si potrebbe ancora farcela. Volendo.

Ci sono negli ultimi 3 anni segnali di stabilizzazione delle emissioni attorno ad un globale di 35.8 Gton (+0,3% nel 2016 rispetto al 2015) e di un “disaccoppiamento” dalla crescita economica. Sono segnali importanti. Nel 2016 ci sono state emissioni di Co2 stabili o in calo in molti paesi chiave compresi Cina (-0.3%), Usa (-2%) e Eu a 28 (che aumenta dello 0.2% ma è scesa del 20.8% rispetto al 1990), ma quello che serve per stare entro i due gradi è un drastico calo. E non ci siamo.

La conferenza di Bonn è la prima conferenza globale sui cambiamenti climatici dopo la decisione di Donald Trump, annunciata nel giugno 2017 (ma che avrà  effetti pieni solo nel 2020) di ritirarsi dall’accordo di Parigi e dovrà da un lato _ quello politico _ riaffermare l’impegno di tutti, Usa e Siria (che ha ben altri problemi…) escluse, a proseguire nel solco degli accordi di Parigi (e fin qui, nessun problema). Dall’altro stabilire in dettaglio le regole dei meccanismi di Parigi, discutere se e come i paesi ricchi _ in quanto inquinatori “storici” _ pagheranno per le perdite causate dai cambiamenti climatici e tradurre in qualcosa più che parole la promesa di contribure con 100 miliardi di dollari all’anno (calcolati come, è ancora un mistero…) allo sforzo dei paesi in via di sviluppo di ridurre le proprie emissioni pur continuando a crescere e ad adattarsi al cambiamento in atto. E’ un processo di scrittura di regole estremamente complesso che si dovrebbe concludere nel 2018 alla prossima COP, la COP24, in vista della partenza dell’accordo di Parigi, che prevede impegni dal 2020.

Il rischio _ anche a prescindere da Trump _ è che sia troppo poco, e troppo tardi.