In questo momento ce lo si immagina come a fine concerto: un lieve inchino al pubblico togliendosi dal capo l’immancabile borsalino. Un’uscita di scena spettacolare nella sua sobrietà, ma come spetta alle leggende.  Perché la morte di Leonard Cohen è un pugno nello stomaco a intere generazioni, risvegliatesi spaesate, orfane della loro voce. La sua voce. Si è sempre pensato che  cantasse tenendo la propria anima sul palmo della mano, non riuscendo a trovare un’altra spiegazione a una simile profondità, ad un così vertiginoso viaggio al centro dell’io.  Per certi, anzi, tanti versi, ricorda Fabrizio De Andrè: con quella voce così viscerale potrebbe cantare qualsiasi cosa con risultati strappa-applausi. Il bello è che il canadese non si è mai speso invano: ha distillato il talento nel corso delle decadi, mai lo ha sprecato. Certo, qualche disco è risultato così così, ma lui è sopravvissuto a mille mareggiate: rock anni 70, punk, new wave, pop anni 80. Lo ha fatto con la sua flemma, tenuto a galla da saggezza e cultura, e portando sempre con sé una valigia di canzoni dove non mancavano mai disperazione, tristezza e pessimismo, come quando nella canzone ‘The future’, del 1992, ben prima delle Torri gemelle, cantava: ‘Ho visto il futuro, ed è un macello’. Scegliere un pezzo simbolo è difficile, anzi no, è proprio impossibile. Perché Leonard ha scritto capolavori ininterrottamente. Prendete ‘Bird on the wire’, con quel ritornello-epitaffio scritto nel 1969,  ‘Come un passerotto sul filo, come un ubriaco di un coro a mezzanotte ho cercato a modo mio di essere libero’. Poi ci sono ‘So long, Marianne’, ‘Chelsea hotel’. E dove mettiamo ‘I’m your man’: andamento lento, crepuscolare, con il synth che qui non risulta così demodè e fa da contralto a quella voce dal centro della terra che bisbiglia: ‘Se vuoi un amante farò tutto quello che mi chiedi, se vuoi un altro tipo d’amore metterò una maschera per te, se vuoi un compagno prendimi per mano, oppure se vuoi gettami per terra: eccomi qui, sono il tuo uomo’.  Poi c’è ‘Hallelujah’, sublimata dal povero Jeff Buckely, ma è roba di Cohen,  Come pure ‘Dance me to the end of love’, ‘Take this waltz’, ‘Everybody knows’  e quell’album, assolutamente pazzesco, che è ‘The future’. Dal disco scappan fuori brandelli di sangue, angoscia palpitante, estasi e tormenti lacerati sulla carta da un uomo che ha sempre dato un peso alle parole. E poco importa se negli ultimi anni la produzione si è molto rallentata: Cohen si è circondato di coriste black, per un suono quasi gospel,  parecchio slow. Il risultato è sempre stato quello di aver raggiunto l’incanto dell’anima, soprattutto in ‘Ten new songs’. Pochi giorni fa era uscito il nuovo album, premonitore in tutto: copertina nera, titolo ‘You want it darker’ e quel verso ripetuto a lungo, ‘I’m ready, my Lord’: Signore, sono pronto.  E ora pensare a un testamento come ‘Blackstar’ di David Bowie è un attimo.

Leonard Cohen ha vissuto in maniera incredibile: l’esperienza da monaco zen, i romanzi scritti, la depressione sfociata in canzoni memorabili, la relazione con l’attrice Rebecca de Mornay (fra i produttori di ‘The future’), una vita incredibilmente totale. Ma soprattutto ha   inciso album memorabili fino alla fine, mentre in giro circola chi scimmiotta se stesso. E’ una perdita immensa, anche se aveva 82 anni era ancora creativo, etereo e tagliente. Mancheranno le sue parole pesanti, il suo cantoparlato, mancherà la sua voce. La voce della nostra coscienza. Signore, sono pronto. Il problema è che siamo noi a non essere pronti a fare a meno di lui.