Street-league

Luciano Davite ha commentato così, su twitter @LucianoDavite, il mio precedente post su questo blog: “Sei un grandissimo, Ale, forse un grandissimo utopista, ma c’è molto bisogno di chi crede all’impossibile”.
Bene. Non certo per autocelebrazione, dio ce ne scampi, riporto qui quel “compli-commento” per potergli rispondere con questo nuovo post. Per raccontare a chi legge e a lui – super appassionato di calcio giovanile e dei suoi valori, e promotore di un seguitissimo blog – che non solo è possibile un calcio “senza barriere”, non solo il calcio può dare un sorriso a migliaia di bambini poveri nel mondo, come insegna Inter Campus, ma il pallone può anche, ad esempio, dare un riscatto morale, sociale, vicile a tanti giovani. Dando loro istruzione, trovando loro un lavoro, un futuro. Non sono utopie, Luciano, sono sogni che, rimboccandosi le maniche, si possono trasformare in realtà.

Vi racconto come…
L’esempio arriva dalla Gran Bretagna. Si chiama Street League e il suo motto, diventato inevitabilmente un hashtag, è #changeslifethroughfootball. Semplice, cambiare vite (in meglio) attraverso il calcio. Con risultati concretissimi. Tom è stato assunto dalla Decathlon, e ha svoltato pagina. Ryan è entrato nella squadra di Burger King, e ha svoltato pagina. Boris fa il cameriere in un hotel, e ha svoltato pagina. Erano 3 “NEET” inglesi, ragatti che non sono occupati né in formazione, né in percorsi di studio né tanto meno lavorativi. Ragazzi e ragazze fermi ai box, spesso senza speranze, senza prospettive, senza stimoli. A darglieli è stata questa straordinaria realtà “che usa il potere del calcio – come sottolinea Robin Van Persie, dopo averla conosciuta – per portare educazione e lavoro nelle comunità più svantaggiate”.

Sì, ma come?
Nata nel 2001 come semplice associazione che aiutava i senzatetto nei sobborghi di Londra o di Liverpool, da qualche anno si è trasformata in una sorta di “Scuola Calcio Lavoro”, dove appunto la parola calcio sta in mezzo tra scuola e lavoro, li unisce, li abbraccia. Una realtà che punta sui giovani tra i 16 e i 24 anni. Li va a stanare nelle zone più povere, nei contesti più disagiati. Li toglie dalla strada, dal divano, dal tunnel. Li inserisce gratuitamente in una delle proprie 15 Academy tra Inghilterra e Scozia, permettendo loro di seguire dei programmi formativi di 2 mesi: “allenamenti” alla vita molto intensi, tutti i giorni, per 4 ore, 2 in aula e 2 in campo. Con uno staff di educatori, allenatori e specialisti, vengono addestrati non solo a dribbling e gol, ma anche a tecniche di comunicazione, lavoro di gruppo, raggiungimento degli obiettivi. E ancora vengono svolte delle sessioni per scrivere i curriculum, vengono promossi incontri con manager e imprenditori, vengono messi a contatto con aziende di vari settori.

I risultati? Strabilianti. Da aprile 2012 a marzo 2013, Street League ha formato 864 NEET e di questi l’81% (703) alla fine del percorso ha trovato lavoro: 4 su 5, in sostanza. Due nel mondo dell’occupazione standard, due invece come allenatori o educatori nel sociale. E, altra cosa straordinaria, chi poi trova un posto, come Ryan, Tom e Boris, non si dimentica certo di Street League, ma prosegue per qualche mese la sua attività dall’altra parte della “barricata”, come volontario, per sdebitarsi – col cuore – in qualche modo.
Street League offre una istruzione certificata dal sistema Britannico. Ha raccolto consensi unanimi, tanto da riuscire a ottenere l’appoggio di varie organizzazioni governative e non, da varie imprese, da altri enti. Tutti uniti, per dare un futuro ai giovani, grazie alla magia del pallone.

In Italia abbiamo la più alta percentuale d’Europa di NEET secondo i dati UE, circa il 32%. Parliamo di oltre 2 milioni di giovani. Ecco, una Street League italiana non risolverebbe certo il problema, ma darebbe un impulso positivo, sarebbe d’esempio per altre iniziative simili, troverebbe un futuro anche per qualche Marco, Andrea o Veronica che oggi sbattono la testa contro un muro.

Che ne dite? In fondo, Luciano, non sono mica utopie…