Scissionisti, dirigenti e leader Pd? Bocciati. La pagella di Luca Ricolfi, sociologo e professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, non perdona: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani prendono 5; Massimo D’Alema 4. Ma il peggiore è Michele Emiliano: «Merita un 3 perché le sue scelte mi sono parse frutto di calcolo».

È vero che questa scissione resterà nella storia per mancanza di pathos e idee?

«Verissimo, in vita mia ricordo solo una scissione altrettanto insulsa, quella dei socialisti e dei socialdemocratici nel 1969, due partiti del tutto simili, entrambi alleati della Dc, che nel 1966 erano confluiti in un’unica sigla, ma resistettero insieme meno di tre anni».

Quale futuro per la Cosa Rossa di D’Alema e Bersani?

«Nessuno, se non una penosa competizione con le altre micro-formazioni a sinistra del Pd, ovvero Sinistra italiana (Nicola Fratoianni) e Campo progressista (Giuliano Pisapia), sempre che non rinasca l’ennesimo partito comunista o il Civati di turno si faccia il partitino. Tutti assieme potrebbero stare fra il 5 e il 10 per cento».

Che cosa ne sarà del Pd? Da partito a vocazione maggioritaria a partito a vocazione centrista? Resterà solo il PdR (partito di Renzi) o ci sarà spazio per la sinistra?

«Il Pd sopravviverà e manterrà il consenso che è sempre stato del Pci, fra il 25% e il 35%. Quanto alla collocazione, il Pd di Renzi non è mai stato di sinistra, ma sfortunatamente non è neppure mai stato quel che aveva promesso di essere: un partito di sinistra liberale. Se guardiamo alle politiche del triennio renziano il paragone più appropriato è con Berlusconi, di cui ha ereditato le idee principali: diffidenza verso la magistratura; più flessibilità sul mercato del lavoro (ma senza reddito minimo e senza un serio avvio di politiche attive); stabilità della pressione fiscale; abolizione della tassa sulla prima casa; spesa pubblica in deficit; un occhio agli interessi delle imprese; persino il ponte sullo stretto di Messina! Dove il PdR è stato un po’ diverso da Forza Italia è sulle unioni civili e sui flussi migratori, un po’ poco per qualificare come ‘di sinistra’ un governo».

La responsabilità di questo strappo di chi è? Di Renzi o della minoranza dem?

«Di tutti e due, mi pare, perché sia Renzi sia i suoi avversari hanno almeno una cosa in comune: la loro priorità non è il Paese, ma avere un ruolo di primo piano nella commedia della politica».

D’Alema e Bersani hanno detto che la scissione c’era già stata tra gli elettori e i militanti…

«È più che vero. Dovrebbero aggiungere, però, che il divorzio fra sinistra e popolo non è avvenuto con Renzi, ma risale molto più indietro nel tempo. Ho appena finito uno studio sull’argomento ( Sinistra e popolo , uscirà per Longanesi ai primi di aprile) e mi sono convinto che il divorzio, iniziato negli anni ’70, ha subìto la sua massima accelerazione negli anni ’90, ai tempi dei vari D’Alema, Bersani, Veltroni, Prodi. È allora che il popolo ha cominciato a guardare anche a destra (se no non avremmo avuto il ventennio berlusconiano) e la sinistra è diventata sempre più la rappresentante dei cosiddetti ‘ceti medi riflessivi’ (docenti, impiegati, intellettuali, ecc…)».

La scissione del Pd si è fatta per il solito ‘complesso dei migliori’ che lei teorizzò in un saggio sui mali della sinistra?

«Il complesso dei migliori non c’entra, la scissione è solo una conseguenza della ristrettezza mentale e dell’avarizia morale dei protagonisti».

Rosalba Carbutti

Intervista pubblicata su QN il 23 febbraio 2017

Twitter: @rosalbacarbutti

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