Shane Lowry, o il bello del golf: uno che ad agosto pare non abbia ancora smaltito il panettone di Natale, ma che, grazie a un talento frizzante come un Moscatello, a una sapiente capacità di astrazione e a mani morbide come vaniglia, riesce a mettere in riga campo tosto e avversari altrettanto tosti al WGC Bridgestone Championship.
Voglio dire: chi, dopo il 63 ipertonico di sabato pomeriggio siglato da Giustino Rose e la sua co-leadership con l’altro cecchino del fairway Jim Jimbo Furyk, avrebbe scommesso per la vittoria finale su un terzo giocatore al di fuori della real coppia di testa? Ve lo dico io: nessuno, o almeno, nessuno sano di mente. Perché su un percorso come quello del Firestone, dove piazzare il drive domando le pendenze dei fairway e i boschi ai lati delle piste resta la priorità numero 1 per ogni golfista che si presenti sul tee, immaginare il golf farfallone del buon Shane in cima al leaderboard è un bell’esercizio di fantasia. Ma è proprio qui che sgorga la bellezza del golf, proprio quando i giochi sembrano essere fatti e il destino di un torneo circoscritto a quei due nomi lì e ci dispiace per tutti gli altri, ecco, è lì che la magia del gioco prende il sopravvento. Quando la scintilla divina del putt si incarna nelle mani morbide e paffute di un irlandese a cui la birra scura e il pudding piacciono- e pure tanto; uno che l’abbonamento in palestra l’ha fatto, sì, ma che poi ha lasciato ammuffire la tessera nella sacca interna del borsone da sport, perché non sia mai che mi perda un giro di birra al pub con gli amici.
Certo: per avere uno Shane vincente, ci son voluti un Justin Rose che s’è scordato il ritmo sul green in spogliatoio e un Jim Furyk che è cascato vittima per l’ennesima volta della “sindrome della single incallita”, quella malattia che colpisce ogni Cenerentola alla caccia del Principe Azzurro ogni qual volta ha un appuntamento galante: se alla single si smaglia la calza, si spezza un’unghia e il verde della rucola s’incastra inesorabile tra gli incisivi, al buon vecchio Jimbo, all’appuntamento con la vittoria, saltano dapprima il nervo sul putt e poi pure il timing dello swing. Altrimenti non si spiegherebbero i suoi 25 secondi posti collezionati in carriera, pari a 25 appuntamenti della single andati in bianco. Tanti, in effetti, a pensarci bene.
Morale: su un campo disegnato per gli ingegneri del gioco, se la son battuta fino alla fine due che han fatto della sregolatezza la loro arma migliore: Shane Lowry, appunto, e Bubba Watson, terminato a una sola lunghezza. Due tipini che non rifanno mai la stessa cosa, perché sanno che rifare la stessa cosa sperando che il risultato cambi, è sinonimo di follia; due che vanno là dove li portano cuore e gancio, due che hanno colpito più aste dal buio fitto della foresta di Cappuccetto Rosso, che dal centro soleggiato della pista. Perché il golf che vince è proprio questo: quello di chi sa adattarsi al meglio delle proprie possibilità alle variabili infinite del gioco, di chi sa adagiarsi, placido come un cocker davanti a un camino scoppiettante, tra le mille pieghe delle possibilità che ha di fronte. E poi, tra le mille possibilità, vuoi mettere l’idea di tornare al pub di casa in Irlanda e offrire un giro di scura a tutti? Irresistibile, proprio come siglare quel birdie finale dal buio pesto del bosco del Firestone, mentre la tua temperatura basale è prossima alla fusione nucleare. Ora: Shane non sarà pratico di come girano i protoni al Cern di Ginevra, ma sa bene come far girare le palle. In senso golfistico, ovviamente.