‘Suona esattamente come il disco!”. Chi ha frequentato anche solo di striscio il mondo imperscrutabile delle sale prova sa che questa frase, detta di una esecuzione di un brano altrui, specie se famoso, è un complimento soltanto se lo si fa a una tribute band. Le cover, invece, quelle vere, sono tutto un altro pianeta. Un universo sempre più abusato, ultimamente, e troppo spesso non capito, viste le copie carbone con l’originale che si sentono in giro. E invece nella sua accezione originale, soprattutto negli anni ’60 e ’70, fare una cover voleva dire prendere una canzone già bella e famosa, spogliarla totalmente e poi rivestirla del proprio gusto, della propria sensibilità, del proprio mondo. Un terno al lotto. Con il livello di rischio che cresce in maniera proporzionale alla popolarità del brano scelto. Ma se si sgombra il campo da una falsa parentela col tributo, dalla cover non è proprio questo che dovremmo aspettarci? Una scommessa, uno scossone, un pugno nello stomaco che sappia rapirci e indignarci alla pari.

Come fa ‘La mia generazione‘ (2017, Warner Italia), l’ultimo album di Mauro Ermanno Giovanardi, alla sua quinta prova solista dopo il periodo dei La Crus. La scommessa che fa, con questo disco, è presentarsi in smoking di fianco al croupier e lanciare sul tavolo tredici brani che sono altrettante stelle di un periodo, gli anni Novanta, in cui nel rock alternativo l’Italia per la prima volta sembrava tornata a poter dire la propria, senza (quasi) copiare nessuno.

Ma il punto è che Giovanardi non si è limito a ricantarle, quelle canzoni. Le ha stravolte, violentate, ha fatto un gran casino. Ad esempio con ‘Aspettando il sole‘ di Neffa e i messaggeri della Dopa, che a metà anni Novanta fu un manifesto generazionale. La sua nuova versione va ascoltata per rendersi conto di cosa è diventata: Giovanardi la respira, la smozzica, l’impasta, riuscendo nell’impresa di farne un altro piccolo capolavoro. Ottenuto abbassando allo stremo il tono della voce: un rantolo da baritono sussurrato, da fumatore incallito, perfetta scenografia per un brano che parla di cieli plumbei e senso di oppressione.

E nessuno avrebbe mai potuto immaginare, per dire, che un esempio dello stile Subsonica come ‘Lasciati‘ sarebbe potuta diventare un rock quasi epico, cantato più veloce dell’originale, dominato dai violini, orchestrati alla grandissima per sostituire le basi elettriche che hanno fatto celebre la band torinese. Il cerchio si chiude poco più in là, con ‘Lieve‘, brano graffiante dei primi Marlene Kuntz, quelli di ‘Catartica’: Giovanardi lo ha trasformato in una cavalcata country di acustiche e armoniche di sfondo.

Il resto della lista fa paura: ‘Huomini’ dei Ritmo Tribale, ‘Non è per sempre’  degli Afterhours, ‘Cose difficili’ dei Casinò Royale, ‘Baby Dull’ degli Üstmamò, ‘Forma e sostanza dei Csi, ‘Cieli neri’ dei Bluvertigo, ‘Corto Maltese’ dei Mau Mau, ‘Stelle buone’ di Cristina Donà, ‘Il primo dio’ dei Massimo Volume. Tutte operazioni pericolosissime, che l’artista non si esime dal portare avanti neppure su di sé, stravolgendo ‘Nera signora‘, piccola perla della produzione di quei La Crus che lo vedevano in qualità di cantante.

Qualche purista, è indubbio, in tutto ciò storcerà il naso. Perché il concetto, la regola aurea, è che i mostri sacri non si toccano. Ma se proprio non si può fare a meno di metterci le mani, se la creatività chiama, allora serve sangue freddo e serbatoio pieno. Per spingere a tavoletta sull’acceleratore e lasciarsi dietro critiche e cocci di arrangiamenti. L’esempio-culmine ci riporta a ‘Sgt Pepper’s’ dei Beatles: una settimana dopo la sua uscita – e un vecchio video lo testimonia – il giovane Jimi Hendrix la eseguì, presente in sala Paul McCartney, alzando a mille la sua chitarra, velocizzandola al limite e passando sopra all’originale come un panzer. Poteva essere una bestemmia, e invece è stato un capolavoro. Per farlo con i Beatles, ovvio, ci voleva Jimi Hendrix. A fare i conti con i nostri Novanta serviva Giovanardi, una tra le migliori voci che il panorama italiano attuale ci possa regalare.

Simone Arminio