Questa non è una recensione. Non lo è, anche se c’è un disco di mezzo: ‘Aram’, Renato Caruso, 2016, Gne Records. Un album strumentale di chitarra classica, strumento senza effetti o elettricità che, pure, nelle mani giuste, col solo apporto di unghie, polpastrelli e palmi, può diventare mille altre cose. Un violino, ad esempio. O una fender, un basso slap, un sintetizzatore, un wah-wah. A un certo punto, e ci sono dei testimoni, divenne la chitarra lisergica di Jimi Hendrix: distorta, rock e suonata coi denti, in piedi sul tavolo di una vecchia casa di montagna, molti ma molti anni fa.

Ci sono due amici, in questa storia di ponti limati e corde riannodate al bisogno, e c’è una scienza innata, quella che serve a fare il metal o le ballate di pianoforte con una sola chitarra classica. C’è infine una scuola di musica, allestita in un cortile ombroso di piante, con un maestro che per arrivare dalla città macina curve e chilometri e in quel cortile, di settimana in settimana, libera bolle di musica francese, spagnola, statunitense. Roba antica, moderna, contemporanea. Classica, leggera. Leggerissima, anzi: e chi lo ha detto che la hit pop del momento non possa essere riarrangiata su due piedi in un modo che sembri uno spartito di Segovia o Villa-Lobos?

E’ in questo caos polveroso di suoni che è nato ‘Aram’, un disco di trent’anni. Un disco a cui manca il La, così come manca la linea, la struttura, che roba è? Suona da classica, mescola il folk, richiama il pop, gioca col jazz, ammicca al rock, sembrerebbe fusion. L’autore in questione (che non ha mai avuto tutte le rotelle a posto, questo è ovvio), ci ha addirittura scritto un libro (‘La mi re mi’, Europa Edizioni) in cui teorizza il Fujabocla, nuovo genere nato dagli incroci, in perfetto stile bricoleur, come il jazz nasce dal blues, il blues dai canti dei neri e la patchanka da tutto il resto.

Un guazzabuglio di suoni e colori che non accosteresti mai, e che pure nella chitarra di Caruso si parlano alla perfezione. Come la title track che apre il disco, fatta di morbide pennellate, vibrazioni di corde a vuoto e dita saltellanti come fossero slides, che si inseguono negli arpeggi e nelle scale cromatiche a dimostrare un mucchio di cose in un quarto di battuta.

E se ‘Paris‘ è un vecchio valzer da carillon, fatto di salterelli, giravolte e lazzi, la malinconia ‘Petilia‘ allora è un bicchiere di vino rosso corposo, fortemente tannico, dal retrogusto di bacche e sottobosco. Che poi è quel luogo da cui tutto è partito. Paese dei padri, di lupi e viaggiatori, che sta sulla collina etcetera etcetera, e che a quei padri guarda in questo antico stornello di un epico folk, solo per rendere la sua rincorsa verso la modernità. Piaciuto? Allora ecco appagate le masse con una classica tarantella. Ma ‘Tarantella di Caruso‘, che parte tale a tutti gli effetti, quasi subito morbidamente si fa jazz, classica, barocco e bossa sudamericana, ché sempre di Sud si tratta, e allora tanto vale shakerare.

Fujabocla, insomma. Come il ritorno al nord, in un omaggio al ‘Caos a Milano‘, in cui le corde a vuoto tornano a farla da padrone, lancinanti come clacson infuriati, così come le virate tonali, inattese, discordanti, luminosissime, ricordano il bello di quelle grandi strade e quei loft milanesi di design in cui fioccano le idee strabilianti. Cos’altro? Una ‘Ninna nanna d’amore‘, che sa di Beatles, di Clapton, di Pino Daniele, che così tanto ha dato alle sei corde, anche se tutti lo ricorderemo per i suoi scarrafoni, e i suoi mille culuri. ‘Epicamente‘ rispetta il suo titolo, così come ‘Bubble in my heart‘, e le bolle in questo caso sono suoni armonici, corde micropercosse, strascicamenti e divertissement: roba di chi la tastiera di una chitarra la sogna di notte, particolare biografico che chi scrive si sente di poter confermare.

Il finale è spagnolo: richiama i maestri ma li guarda da lontano, omaggiandoli sinceramente prima di scappare per altri lidi, in un intreccio di suoni in cui torna tutto: lo stornello, l’elettrica, Jimi Hendrix, la passione sconfinata, i falò d’estate, l’ozio, le corde riannodate, i mi cantini saltati e riadattati con un si: ‘Relax my mind’. O ‘Super Pablo’, che è un giochino, una vita che nasce e cresce nel sogno nascosto che, chi lo sa, possa un giorno trovare la gioia di sei corde da pizzicare per assaggiare il mondo. Crescendo come quei due ragazzi, venuti su con il mito della chitarra e l’assenza di generi. Perché, Mozart non era pop? E il rock non è folklore? E le fughe sempre uguali della tarantella, dico, hanno davvero qualcosa da invidiare ai canoni del jazz? Intanto quei due ragazzi sono cresciuti. A quindici anni uno dei due voleva fare il chitarrista. L’altro, che giocava a fare il cronista, sperava un giorno di poterlo raccontare.