I capelli di Noemi, la gravidanza di Kasia Smutniak, i rotoli sulla schiena cadente della Parietti, lo spacco vertiginoso di Tania Cagnotto: quando a Sanremo si parla di tutto meno che di canzoni vuol dire che qualcosa non funziona.
Deve averlo capito anche Fazio che oggi ha perso il suo proverbiale aplomb durante l’incontro mattutino con i giornalisti, primo evento davvero straordinario di questo Festival. Messo di fronte a dati audience preoccupanti, per usare un eufemismo, il conduttore si è difeso respingendo con fermezza l’ipotesi di aver contribuito al tonfo con il suo buonismo: “In questo Paese costruito sulla rabbia, ormai l’educazione viene scambiata per buonismo”. Niente affatto. E la dimostrazione di quanto sia falso questo concetto, Fazio ce l’ha sotto gli occhi: Massimo Gramellini, giornalista e scrittore nonchè suo stretto collaboratore e soprattutto amico, è persona educatissima eppure dotato di un senso critico e di un’ironia sferzanti, che al momento giusto non risparmiano nessuno. Perchè un conto è non usare toni o modi sgarbati, un conto è stendere il tappeto rosso all’ospite di turno, coprirlo solo di elogi e di ringraziamenti evitando con cura il minimo accenno ad argomenti che potrebbero infastidirlo.
Questo tipo di atteggiamento, a casa mia, si chiama in un altro modo e non c’entra nulla con il bon ton. Così come lo spettacolo di questi giorni non c’entra nulla con il Festival della canzone italiana. Forse servirebbe meno educazione e più umiltà. L’umiltà di capire che Sanremo è sempre stato e sempre sarà una manifestazione nazionalpopolare (parole sacrosante di Pippo Baudo), un po’ come il calcio, e che come il calcio ha regole semplicissime: se ci sono i campioni lo spettacolo è garantito, sennò ciccia.
Spacciare per big cantanti in gran parte sconosciuti ai due terzi d’Italia, equivale al Milan che gioca la Champions League con la squadra Primavera. Se hai Benigni o Crozza va benissimo anche un monologo di mezz’ora ma se tocca a Franca Valeri stanca e debole possono bastare cinque minuti, se poi li rimpiazza la Littizzetto se ne può fare tranquillamente a meno. Senza contare che chi guarda Sanremo, soprattutto di questi tempi, cerca anche un po’ di leggerezza e di relax per combattere l’ansia da stress quotidiano. Qui invece ogni sera si comincia con la celebrazione di un defunto, tutti grandissimi personaggi per carità ma più che un Festival pare un eterno funerale. E anche con i vivi, ormai è appurato, non si corre certo il rischio di indigestione da allegria.
Ma tant’è. Fa un certo effetto, almeno a me, il contrasto fra la pomposità con cui vengono riesumati tanti vip e le parole frettolose in memoria delle vittime della guerra civile a Kiev, nomi che non passeranno mai alla storia ma che hanno sacrificato la vita per cambiarla, la storia. E fa un certo effetto anche vedere con quanta facilità Renzo Arbore riesce ad allontanare i pensieri più cupi e a farci riscoprire il piacere delle armonie, la forza di una grande personalità artistica, la voglia di sorridere e di cantare tutti insieme. Proprio quello che Sanremo dovrebbe portare con sè: il sapore buono delle cose semplici.